Hellbound (prima stagione): la recensione

Hellbound, nuova serie dal regista di Train to Busan, mescola mostruosità e horror con i temi della fede e del senso di colpa: recensione

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Spoiler Alert
Hellbound (prima stagione): la recensione

Nella prima scena di Hellbound un trio di gorilloni demoniaci prende a pugni un poveretto come se non ci fosse un domani. Eventualità possibile, dato che c'è chi lo interpreta come un segno della fine del mondo. In realtà dietro questa premessa visivamente abbastanza rumorosa, e non volutamente ridicola, la serie sudcoreana di Netflix sta già lavorando su una vicenda che tocca vari temi interessanti. Si parla di rapporto con la fede, senso di colpa, stigma sociale, influenza dei media, istituzioni pericolose. C'è un certo scollamento tra la grande seriosità di fondo di queste vicende e la messa in scena violenta e di grana grossa, ed è anche difficile incasellare Hellbound in un genere particolare. Però bisogna dire che la storia è abbastanza avvincente, e prende pieghe quasi mai prevedibili.

A partire dall'uccisione iniziale che si diceva prima, si scatena un certo panico nella popolazione. C'è chi nega l'accaduto, chi cerca una spiegazione, e chi ne approfitta. Questi ultimi sono in particolare i capi e gli adepti di una sorta di organizzazione religiosa chiamata Nuova verità. Guidati da un guru spirituale, approfittano delle uccisioni – che quindi continueranno – per lanciare l'allarme sul giudizio divino che si abbatterà su tutti gli empi e i peccatori. Nel frattempo, come è ovvio, guadagnano potere. Sulla loro strada ci sono un detective e un'avvocatessa, che però sembrano non poter fare molto per contrastarli. Tutto questo raccontato in appena sei episodi molto agili da vedere.

La caratteristica narrativa che dà un senso tutto particolare alla storia è che alle vittime viene sempre anticipato che entro qualche giorno verranno giudicate (traduzione: riempite di cazzotti dai gorilloni di cui sopra e spedite all'inferno). Hellbound, diretto dallo stesso regista di Train to Busan, si basa tutto su questa idea più che sull'uccisione in sé. Ognuna delle diverse reazioni riflette di temi di cui vuole parlare la serie. C'è la donna che accetterà di mandare in diretta la propria morte, per trovare dei soldi da lasciare ai figli, e dall'altro c'è l'organizzazione ansiosa di diffondere il panico per aumentare il proprio potere. Ma c'è anche la vergogna sociale. In una curiosa sovrapposizione forse mai esplorata fino in fondo, la sentenza di morte equivale alla diagnosi di una malattia incurabile, che però crea vergogna in chi la subisce.

Chi è peccatore e muore da peccatore lascia con disonore questo mondo, e spesso cerca di morire lontano dagli occhi altrui. Sono questi piccoli slanci creativi che fanno di Hellbound una serie interessante, capace di utilizzare la sua premessa per raccontare qualcosa di più profondo. Il paragone con Squid Game non è richiesto, ma anche qui un senso di violenza eccessiva, quasi piacevolmente sanguinolenta, si accompagna a temi che vorrebbero essere più profondi. E probabilmente anche qui torna quel corto circuito narrativo che c'era in quel caso. La serie condanna chi è ossessionato da queste visioni di morte, ma al tempo stesso si mette in quella stessa posizione, mostrandoci con ferocia quegli atti di violenza.

Potrebbe essere una contraddizione voluta, ma non ne siamo così sicuri.

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