Heartstopper (prima stagione), la recensione

Lontano da ombre scabrose, Heartstopper è una storia a tinte tenui volta a commuovere e confortare i membri più giovani della comunità LGBT

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La recensione della prima stagione di Heartstopper, disponibile su Netflix

Quando si parla di rappresentazione seriale dei tumulti adolescenziali, uno dei primi titoli che si affacciano alla nostra mente è Euphoria. Col suo successo planetario, la serie di Sam Levinson ha da subito puntato a sconvolgere il pubblico, dipingendo i suoi giovanissimi protagonisti con tinte forti e scabrose; un ritratto vivido, spesso conturbante, fortemente sessualizzato e a tratti volutamente sgradevole.

Viene quasi automatico contrapporre, per contrasto, la sopracitata Euphoria e la nuovissima Heartstopper, tratta dall'omonimo fumetto di Alice Oseman. Nel seguire la nascita del legame tra il quindicenne gay Charlie (Joe Locke) e il poco più anziano Nick (Kit Connor), la serie schiva con precisione chirurgica qualsiasi pruriginosità. È un mondo di tinte tenui, quello di questa piccola parabola liceale; a ribadirlo, intervengono interventi grafici che rimandano al mondo dell'animazione tradizionale, eco di un'infanzia ancora dietro l'angolo.

Un approccio positivo ai drammi dei protagonisti

Sebbene non manchino, in Heartstopper, situazioni spinose legate al bullismo e all'omofobia, il dramma alberga tutto nel cuore dei suoi protagonisti. Dal citato Joe, convinto di non meritare una relazione alla luce del sole, a Tara (Corinna Brown) e Darcy (Kizzy Edgel) che decidono di non nascondere più il proprio amore, passando per Tao (William Gao) che teme che nuovi sentimenti possano rovinare il suo nucleo di amicizie; tutti i tormenti che la serie ci racconta sono tragedie in miniatura, ostacoli ordinari del percorso di crescita.

In aperta opposizione a un certo tipo di narrativa, Heartstopper non vuole vedere i propri personaggi soccombere al peso di una società incapace di accettarli; non li tortura con situazioni al limite, non li logora con situazioni familiari disastrati o vizi autodistruttivi. Sembra, invece, volerli guidare per mano verso il coronamento dei propri sogni, scortandoli con l'abbraccio rassicurante di un genitore benevolo (azzeccatissimo, in tal senso, il piccolo ruolo di Olivia Colman).

Heartstopper

Un quadro rassicurante

Certo, chi fosse in cerca di uno spaccato duro e scioccante dell'adolescenza LGBT non troverà qui motivo d'interesse. A dirla tutta, una serie come Heartstopper esercita indubbiamente poca attrattiva su un pubblico adulto, abituato a nuance e dilemmi di ben altra entità. Tuttavia, questo non è un punto a sfavore dello show, anzi: nella scelta di epurare dalle asperità il proprio racconto di formazione, questa prima stagione dimostra una limpida chiarezza d'intenti.

Lungi dal seguire le orme di Euphoria nel calamitare a ogni costo lo sguardo morboso dello spettatore maturo, Heartstopper parla a un pubblico giovanissimo, forse anche più giovane dei protagonisti che la popolano. E gli parla con i toni pacati della sua graphic novel d'origine, smussando - qualcuno potrà dire edulcorando - la brutalità della discriminazione. L'accettazione di sé è il cardine della storia, passo imprescindibile per pretendere l'accettazione da parte del prossimo; ed è uno step più che mai arduo da compiere durante gli anni adolescenziali.

Facendo di questo passaggio il suo punto fermo, Heartstopper dichiara il proprio proposito: dimostrare, attraverso la storia di Charlie e dei suoi amici, la felicità derivante dall'essere se stessi. Un messaggio semplice, persino banale, ma che chiarisce perché la serie si sia tenuta lontana da certe zone d'ombra ampiamente esplorate da altri prodotti. Hearstopper non è un manifesto di denuncia, tutt'altro; è una pacca sulla spalla, un incoraggiamento sorridente, una cartolina dai colori pastello che vuole confortare i più giovani membri della comunità arcobaleno.

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