Hatching, la recensione
Per quanto sia nobile il tentativo linguistico, Hatching prende un po’ dappertutto senza seminare nulla e senza costruire una sua forte poetica e/o credibilità.
La recensione di Hatching, al cinema dal 6 ottobre
La sensazione è infatti che Bergholm tenti più di ogni altra cosa di creare un horror d’autore, poiché la storia è costruita fin da subito come un’evidente allegoria dai toni inquietanti. Siamo in un quartiere residenziale finlandese dove un’allegra e biondissima famiglia viene squarciata nella sua apparente perfezione dall’arrivo di un corvo: da quell’evento si mostrano le crepe di una realtà differente, in cui la figlia adolescente vive sotto le pressioni di una madre esigente e anaffettiva. Trovato l’uovo del corvo, Tinja (la giovane protagonista, Siiri Solalinna) comincerà a covarlo fino a farlo schiudere, trovando in questo uccello mostruoso - e che nasconde in un armadio con tanto di vestito a fiori, proprio come E.T. - un suo alter ego e un alleato.
Insomma in Hatching manca il piacere epidermico, l’orrore della carne. Ciò che invece abbonda è un’atmosfera di ripetitiva sospensione dove il livello recitativo di certo non aiuta in credibilità (terribile la madre, Sophia Heikkilä) facendo così decadere fin dall’inizio l’obiettivo di essere convincente almeno sul piano psicologico. Anche lo svolgimento della trama, oltre a non essere mai coinvolgente, a volte ricade in svolte di un’assurdità inspiegabile e imbarazzante se non in termini di comodità narrativa (per esempio un personaggio che palesemente ha visto il mostro e la scambia per Tinja…).
Per quanto sia nobile il tentativo linguistico di giocare con generi, atmosfere e citazioni, Hatching purtroppo prende un po’ dappertutto senza seminare nulla e senza costruire una sua forte poetica e/o credibilità.
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