Harvest, la recensione: la debole elegia folk di Athīna Tsaggarī

La recensione di Harvest, il nuovo film di Athīna Rachīl Tsaggarī presentato al Festival di Venezia

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Narrativamente il conflitto al centro di Harvest avrebbe un certo interesse. In un villaggio nella Scozia medievale arriva improvvisamente la modernità: un nobile eredita il territorio e decide di mapparlo e riorganizzarlo secondo le più recenti innovazioni agricole. Del destino dei 50 contadini che ci abitano e della distruzione del loro stile di vita gli importa poco. Athīna Tsaggarī (Attenberg) lamenta pasolinianamente la morte di un antico mondo rurale coi suoi riti e credenze, soppiantato dalla logica del profitto e del rigore numerico. Qualcuno è d’accordo, qualcuno si oppone, qualcuno non può farci niente. E su questi diversi posizionamenti la sceneggiatura costruisce figure interessanti, scisse tra il partecipare al nuovo mondo e il rimorso per quello che vanno a distruggere.

Il primo grosso problema è che Tsaggarī registicamente non riesce a valorizzare questa storia. Lo stile di Harvest è quello di default per troppe produzioni “da festival”: lento non per ragioni espressive ma deliberatamente, perché fa arthouse. Colonna sonora minimale. Abuso di camera a mano. E attori del tutto fuori fuoco, in modo sorprendente per gente come Harry Melling (forse il miglior caratterista giovane in circolazione) e Caleb Landry-Jones. Su tutto aleggia un senso di dilatazione, di poca convinzione, che non permette alle svolte di trama di incidere. Ci viene detto che un personaggio vive un conflitto ma non lo sentiamo, perché tutto è filmato e recitato in modo catatonico.

L’altro problema sta nella scrittura di uno dei protagonisti, il contadino Walter interpretato da Landry-Jones; che è proprio una di queste figure di confine che vedono cambiare il mondo intorno a loro e (nel suo caso) cercano di fargli fare marcia indietro. Al di là di quanto possa apparire semplicistica una visione per cui rurale, contadino, pre-scientifico sono valori assolutamente positivi e lo sviluppo industriale un mostro da condannare in toto, ci sembra un grosso errore caratterizzare Walter (esponente di questa ruralità innocente, ancora legata ai vecchi riti) come una figura dotata di una coscienza quasi meta-storica: lo vediamo elaborare riflessioni sui cambiamenti in atto, ad esempio quando dice al cartografo che sta disegnando la regione (Arinzé Kene) che ne preferisce un disegno più “irrazionale”, contrapponendo consapevolmente la logica magica del mondo contadino a quella tecnica dell’industria.

In bocca a un contadino medievale come Walter queste riflessioni da antropologo del Novecento stonano incredibilmente, dando l’impressione che gli sceneggiatori abbiano voluto inserire all’interno della storia una specie di avatar del loro punto di vista: una scelta che risulta sia manipolatoria, sia contraddittoria rispetto a uno sguardo che teoricamente ha proprio nell’autenticità (intesa come tema e come modo espressivo) il proprio centro. Insomma non solo Harvest racconta la sua storia in modo poco interessante, ma fa anche di tutto per imporci il suo punto di vista, sbattendoci la testa contro la pietra come i suoi personaggi in una delle scene più ottuse e autoritarie viste in questo festival.

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