Hanno clonato Tyrone, la recensione

Una trama di complotti e fantascienza in Hanno clonato Tyrone viene virata sui problemi degli afroamericani creando puro afrosurrealismo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Hanno clonato Tyrone, in uscita su Netflix il 21 luglio

Nel momento in cui entra in gioco un laboratorio segreto nel quale vengono coltivati cloni degli afroamericani e l’inserviente che controlla tutto è uno scienziato in camice bianco con capigliatura afro, allora siamo certi di essere con tutti e due i piedi dentro l’afrosurrealismo. È una delle tendenze del cinema più importanti di questi anni e in un certo senso più sotterranee, anche se alcuni dei film che più lo hanno fomentato sono molto noti (quelli di Jordan Peele).

L’afrosurrealismo è una corrente del Novecento che da poco ha sfondato nel cinema e che racconta la condizione degli afrodiscendenti attraverso il grottesco e l’onirico. Al cinema lo fa applicando schemi, trame e luoghi comuni del fantastico e del fantascientifico a situazioni e problemi degli afrodiscendenti.

Così la cospirazione scientifica che viene scoperta da dei nessuno in questo film diventa una cospirazione per mantenere gli afroamericani nei ghetti, e viene scoperto da un pappone, una prostituta e uno spacciatore negli anni ‘90. La risoluzione finale, la scoperta di chi ci sia dietro, confermerà altri elementi del cinema afrosurrealista: la centralità delle questioni del corpo e il desiderio di fusione dei bianchi con gli afroamericani (che era uno dei principi più interessanti di Get Out).

Hanno clonato Tyrone fa tutto questo con buon gusto e forse il miglior John Boyega visto fino ad ora (ma anche il miglior Jamie Foxx da anni), ravvivati, scossi e stimolati dal vero motore che anima tutto il cast, la vera presa elettrica del film: Teyonah Parris. C’è da subito un gran senso della scrittura e del racconto, una piacevolezza narrativa che non è scontata (specialmente su Netflix). Anche la palette di colori è quella più giusta! E in tutto questo non guasta che sappia come divertirsi e divertire. Juel Taylor,che oltre a dirigere scrive anche con Tony Rettenmayer, non è schiacciato sui dettami dei generi cui fa riferimento e anzi sa mettersi in una strana posizione tra l’adesione alle gabbie del cinema più commerciale e la libertà del cinema più autoriale (di nuovo: la stessa sul cui dorso cavalca Jordan Peele). 

Hanno clonato Tyrone non è un film solo di scrittura però: funziona visivamente e sfrutta molte delle caratteristiche stereotipiche della cultura afroamericana (dal pollo fritto, alla musica, fino alla moda, le funzioni religiose cantate e il taglio dei capelli) per mostrare come i suoi personaggi siano controllati, ragiona a partire dai consumi per raccontare il controllo. In una scena particolarmente efficace un fast food intero scoppia a ridere, e gli avventori sono tutti afroamericani. C’è in quel momento una sovrapposizione così invisibile e aderente tra i paradossi della finzione e il suo referente reale (la tendenza delle imprese a creare target omogenei di consumatori da servire e mantenere propri) da dire qualcosa anche al di là delle idee di controllo del film.

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