Hannibal 2x07, Yakimono - La recensione
In quello che è un vero e proprio finale di (metà) stagione, Hannibal si distacca dai romanzi di Harris presentando un nuovo, inaspettato assetto...
Queste le parole di Jack Crawford (Laurence Fisburne) mentre esamina, assieme a Will Graham (Hugh Dancy) il "laboratorio" dello Squartatore di Chesapeake, passando al setaccio gli strumenti con cui il misterioso assassino ha, di volta in volta, allestito le proprie agghiaccianti scene del crimine.
Inutile dire che la cosa non è affatto semplice: Miriam non ricorda il volto del suo aguzzino, essendo stata sottoposta, nei due anni di prigionia, a una sorta di bizzarro lavaggio del cervello, non dissimile da quello operato, per un lasso di tempo minore, sul povero Will Graham nella passata stagione. Will e Miriam si confrontano, uniti da un'esperienza comune di cui solo il primo è pienamente a conoscenza. Entrambi sono "sopravvissuti" al terribile dottor Lecter, seppur a caro prezzo (Will ha dovuto affrontare un'ingiusta accusa di omicidio, rischiando la pena capitale; Miriam ha addirittura perso un braccio, amputatole dal serial killer), ma essere superstiti non vuol dire affatto essere fuori dalla sanguinosa partita che l'assassino, nell'ombra, sta continuando a giocare.
In uno scenario di stravolgimenti eccitanti, l'unica costante pericolosamente invariata è data dal personaggio di Alana Bloom (Caroline Dhavernas), arroccata nelle proprie discutibili certezze e forte di un germoglio d'amore che, in realtà, altro non è se non un ennesimo esercizio di manipolazione da parte di Hannibal. La bella psichiatra farà bene ad aprire gli occhi e cambiare schieramento: in una serie che non ha dimostrato pietà alcuna nei confronti dei deboli, l'orizzonte di Alana sembra sempre più fosco.
Cardine della puntata è il breve, ma intensissimo confronto tra Will e Hannibal, di nuovo da pari a pari. Il giovane penetra in casa dello psichiatra e lo minaccia con una pistola, ma poche battute bastano a fargli abbandonare il campo, conscio dell'aura di martirio che l'omicidio di Hannibal porterebbe con sé, in assenza di prove schiaccianti contro il dottore. Tuttavia, come d'abitudine, Fuller non si accontenta. Già, perché lasciar vivere Hannibal non vuol dire solo risparmiare la sua vita, ma anche e soprattutto condannare qualcun altro a morte, specie in un momento in cui la già spasmodica sete di sangue dell'assassino è accentuata dal bisogno di rimpiazzare il posto lasciato vacante dopo la scarcerazione di Will: se il profiler dell'FBI è innocente, chi è allora lo Squartatore di Chesapeake?
Il ruolo più importante dell'episodio è riservato al dottor Frederick Chilton (un eccellente Raúl Esparza), direttore dell'Ospedale Psichiatrico Criminale di Baltimora, che nell'arco di poche scene riesce a portare il pubblico a tifare per lui, contravvenendo a quanto seminato sia dai romanzi di Harris che dalle relative trasposizioni cinematografiche. È su di lui che ricade la scelta di Hannibal, ineffabile burattinaio che illude le proprie marionette di agire autonomamente, guidando in realtà nell'ombra ogni mossa, piegando ogni opinione a suo favore, in uno slalom sempre più rocambolesco. E sul piccolo palcoscenico del dottor Lecter, non c'è più spazio per l'ambiguo collega, che già da tempo nutre fortissimi sospetti nei suoi confronti. Ciò che stupisce non è certo il fatto che Chilton venga messo fuori uso, questo no. Sono piuttosto le modalità a lasciare senza fiato: la disfatta di Chilton è un castello di carte impossibile, una costruzione paradossale - e teatrale - che lascia lo spettatore del tutto sconvolto e spaesato, privo di punti fermi al di là di un'unica consapevolezza: Hannibal Lecter pare esserne uscito vincitore, e la sua statura aumenta a dismisura, facendolo assurgere ad autentico, invincibile demonio. Hannibal è come fumo, non si può arginare: o almeno, questa è l'impressione che si ha sul finire di questo strabiliante episodio, che si chiude mirabilmente su un quadro di relativa calma: Will torna a far visita al suo ex amico, chiedendogli di ricominciare la terapia insieme.
Abbiamo imparato a conoscere i nostri protagonisti. Sappiamo che Will è fermamente convinto della colpevolezza di Hannibal, e che questa richiesta è figlia di una nuova, più sottile strategia messa in atto dal profiler per cercare di incastrare una volta per tutte lo psichiatra-cannibale. Sappiamo anche che Hannibal, sebbene immune a qualsivoglia moto sentimentale, ha il terribile difetto della curiosità, che lo spinge verso la mano tesa di un uomo che non smetterà mai di fargli la guerra, più o meno apertamente. Hannibal non sa resistere alla tentazione; l'attrazione per Will è troppo forte, la prospettiva di un rinnovato rapporto con lui troppo allettante per non essere accolta immediatamente. E nel vedere i due uomini sedersi di nuovo l'uno di fronte all'altro, riecheggia nella mente uno stralcio del dialogo tra Chilton e Will: "Perché Hannibal non ti ha semplicemente ucciso?" "Perché vuole essere mio amico."
A nulla vale, a questo punto, cercare tastoni un appiglio nei romanzi originari; se la morte di Beverly Katz aveva già messo in allerta i fan della saga letteraria, le uscite di scena "importanti" di Yakimono chiariscono in modo definitivo l'indipendenza della serie NBC rispetto al canone di Harris: in questo campo di battaglia in cui Hannibal sembra giganteggiare incontrastato, nessun personaggio può dirsi davvero al sicuro. Al pubblico non resta che continuare a tremare, di paura e di piacere, nell'attesa della prossima scarica di adrenalina che il prodigo show non mancherà di regalare la prossima settimana.