Hanna - la recensione

Che succederebbe se Jason Bourne allenasse Mowgli con lo scopo di uccidere sua madre? Hanna dà una risposta meno interessante della domanda...

Critico e giornalista cinematografico


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Esiste una categoria di film molto precisa, quelli che iniziano alla grande e lentamente si disfanno con il loro incedere. Film che partono mettendo sul tavolo le migliori idee oltre alle migliori intenzioni e lentamente distruggono quello che avevano suggerito di voler fare con la sistematica banalizzazione dei contenuti. Solitamente, in questi film, a una storia e uno svolgimento che tendono allo stereotipico corrisponde una forma estremamente ricercata che anch'essa lentamente passa dall'originalità alla banalità da videoclip.

Ecco, non credevo che avrei dovuto di nuovo paragonare parti di un film ad un videoclip. Odio farlo perchè la maggior parte delle volte non ha senso farlo, oltre a essere proprio sbagliato. Ma non per Hanna. Hanna finisce come un videoclip quando era iniziato come un film di John Milius. Le musiche dei Chemical Brothers (loro sì, sempre ineccepibili) passano dall'essere arma di contrasto alle immagini ad esserne volano, proprio come accade nei video musicali.

Joe Wright è determinato a raccontare una storia di contrasto tra il massimo della purezza e il massimo della contaminazione (temi non nuovi per lui). Una ragazza cresciuta nei boschi senza il minimo contatto con qualsiasi forma di tecnologia o di corruzione sociale (però mena!) contrapposta ai servizi segreti che operano al di fuori della legalità per proteggere se stessi. Jason Bourne incontra Mowgli. L'idea è subito vincente perchè l'Hanna del titolo è davvero in bilico tra purezza e violenza e sembra quasi affermare come la violenza della vita animale sia essa stessa una forma di purezza.

Poi però nella seconda parte, quella della fuga, degli incontri con gli altri uomini e della risoluzione finale, la scelta di premere sul versante idealistico e ad un certo punto quasi onirico (ma perchè???) apre una voragine nel film. I tempi si dilatano senza che anche gli stimoli e i possibili significati facciano altrettanto e così la più classica delle soluzioni finali, che in altri contesti non avrebbe stonato, non può che risultare svilente e un passo in più verso la banalità.

Da che il rapporto tra personaggio e paesaggio creava significati aggiunti ad una storia di ricerca d'identità e conquista della propria vita (un paradossale romanzo di formazione), il film riduce la sua ampiezza, dimentica il contesto e si concentra sull'azione dimenticando quel che dovrebbe originarla.

Non ci fosse Cate Blanchett, che come sempre onora il suo ruolo confezionando un cattivo d'eccezione tutto sorrisetti imbarazzati, desideri inespressi e compostezza, capace di microslanci sentimentali con uno sguardo, Hanna arrivato al fotogramma finale davvero non avrebbe più la minima credibilità.

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