The Hanging Sun, la recensione

Il più classico dei thriller nordici dal paese che meno ci si aspetta (l'Italia) è tutto corretto ma manca di personalità

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Hanging Sun, il film di Francesco Carrozzini presentato come film di chiusura al Festival di Venezia

Italiani giù al Nord, produzione nostrana di ferro (Cattleya più Groenlandia) in associazione con Sky UK che adatta un romanzo di Jo Nesbo in Scandinavia. The Hanging Sun è un esperimento di mimesi con il thriller nordico che mostra la plasticità che le co-produzioni italiane possono mettere in campo. Un film però mimetizzato nel suo genere così tanto e a tal punto da perdersi in questa mimesi. Perché il thriller nordico Carrozzini lo centra così bene da smarrire un’identità a favore della coerenza e della correttezza rispetto alla storia e agli standard visivi internazionali.

Ad esempio non ci sono dubbi che The Hanging Sun metta a frutto benissimo gli ambienti (cruciali in questi film) ma lo fa seguendo i dettami già stabiliti e gli standard già fissati, calcando qualcosa e non creando qualcosa (per questo è tutto giusto ma oltre al suo intreccio dice poco). E anche Alessandro Borghi è incastrato perfettamente, sta così bene tra quegli scenari da perdersi anche lui nel thriller, imitando invece di costruire. Lui è il classico eroe misterioso e silenzioso, ripiegato in se stesso che comunica poco, spara e mena con riluttanza ma soprattutto soffre senza dirlo. Più bravo di molti altri in questi ruoli ma sotto i suoi standard abituali.

Questo è il vero problema di The Hanging Sun. In un film che cerca così tanto di accreditarsi presso il pubblico che ama quel genere, uno che punta ad essere corretto più che unico, sono gli attori a dover fare la differenza visto anche il cast (oltre a Borghi ci sono Peter Mullan e Charles Dance). Così quando mette da parte la gestione del mistero (cioè proprio la componente thriller) e lavora di rapporti tra personaggi con silenzi e sguardi, tutto sembra avere più un senso. Quando nella seconda parte tutti smettono di essere lo stereotipo di un genere e cominciano a provare davvero ad essere personaggi, finalmente la recitazione  comincia a trovare vie d’uscita, e qualcosa alla fine uscirà, cioè il racconto dei rapporti che si instaurano tra esseri umani in cerca disperata di contatto umano in questi luoghi in cui vivere è una lotta e la ristrettezza mentale è la regola.

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