Hammamet, la recensione
Vago e privo di una vera lettura degli eventi e del personaggio Hammamet vive del suo attore protagonista, che ha idee ben più chiare e a fuoco del film
HAMMAMET, DI GIANNI AMELIO: LA RECENSIONE
Tutto Hammamet si svolge attorno a una Pasqua degli ultimi mesi di vita del protagonista il cui nome non sentiamo mai, come del resto non sentiamo nemmeno quello degli altri. Gli unici che vengono chiamati per nome sono i personaggi inventati e la figlia (ma non il suo nome vero, Stefania, uno di finzione anch’esso garibaldino, Anita). È una Pasqua che riunisce la sua famiglia nel suo ritiro e gli dà modo di interagire con diverse persone, non solo famigliari. Sono come fantasmi che arrivano in visita e con cui dialogare di politica.
Come ampiamente anticipato dai trailer, Favino non fa Craxi ma diventa Craxi, in uno sforzo di imitazione e fusione mimetica sconosciuto al nostro cinema, che al realismo preferisce sempre l’astrazione. Invece di usare qualche dettaglio come un baffo, un occhiale, una parrucca o un tic per far risuonare la vera persona (lo stesso Favino lo fa in Il Traditore), qui ricalca maniacalmente tutto, il movimento, la parlata, il tono di voce e le espressioni reali. Hammamet lo mostra da subito nel momento di regia migliore, quando il protagonista è introdotto durante un congresso degli anni ‘80, schermi giganti rimandano il suo volto, i movimenti, la cadenza e la parlata sono perfetti, il Craxi pubblico esattamente com’era. È ovunque, è grande, è applaudito, è potente, non teme niente.
C’è un momento che riassume perfettamente questa doppia natura, è quello in cui Craxi racconta un sogno che ha avuto: dalla recitazione traspira il desiderio represso di tornare, la fatica del non essere grande e l’orgoglio ferito dal non poter comandare. Ma quel che dice e quella scena in sé hanno poco senso.
Potete commentare qui sotto o sul forum.