Halt and Catch Fire: la recensione

Il commento ad Halt and Catch Fire della AMC: una delle migliori proposte di sempre del network

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Escludendo quei due giganti che sono Mad Men e Breaking Bad, la prima stagione di Halt and Catch Fire, conclusasi lo scorso 3 agosto, è la migliore proposta di sempre della AMC. Dopo troppi anni di scommesse più o meno fallite e di progetti non all'altezza delle aspettative, il period drama di Christopher Cantwell e Christopher C. Rogers, al momento sospeso nel limbo tra cancellazione e rinnovo, ha finalmente presentato sul network una narrazione e dei personaggi forti. La rivoluzione del personal computer all'inizio degli anni '80 e la quasi disperata ossessione di un gruppo di tecnici che cercano di partecipare alla storia in atto, in una delle migliori nuove proposte dell'anno che non merita di terminare qui. Halt and Catch Fire è un gioiellino.

Una donna con dei biondi capelli corti corre a perdifiato verso uno schermo gigante in uno spaventoso scenario da 1984, quindi scaglia un martello contro il "grande fratello" e libera dalla schiavitù il mondo. È lo storico spot, che potete vedere qui, girato da Ridley Scott proprio nel 1984 per la Apple. La rivoluzione è in atto, il singolo si alza dalla massa, grida la propria autonomia e il proprio controllo sulla macchina. Oggi, esattamente a trent'anni di distanza, possiamo davvero dire di essere scampati a quella "massificazione"? Lasciando queste considerazioni da parte, e immergendoci in quel decennio, seguiamo le vicende di Joe McMillan (Lee Pace), Gordon Clark (Scoot McNairy) e Cameron Howe (Mackanzie Davis) e il loro tentativo di costruire un computer.

Li avevamo lasciati, dopo il Pilot, alle prese con la violazione del codice Bios detenuto dalla IBM, e con le conseguenze di questa sfida lanciata al colosso dell'informatica. Li seguiremo, nelle nove puntate restanti, tra problematiche di tipo tecnico e finanziario, nel loro tentativo di realizzare qualcosa che abbia il sapore dell'innovazione e che possa davvero fare la storia del settore. Il ritratto di una generazione di sognatori, non dissimile, se non per tono e ambientazione, da quello proposto dalla HBO con Silicon Valley, che lascia il posto al racconto, spesso ingeneroso, di figure imperfette, amorali, ma sempre vive e, finalmente, interessanti. Dopo tanti progetti di medio livello – alcuni anche piacevoli – Halt and Catch Fire è una serie incisiva nel panorama televisivo della AMC, con una forte identità, dalle soluzioni alle volte sgradevoli, ma che non lascia indifferenti.

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Lo sguardo glaciale di Lee Pace, che si scioglierà sempre più andando avanti nella storia, inquadra un personaggio dal passato segnato e dalla morale distorta, che nella prima parte di stagione farà ricorso ai mezzi più bassi pur di raggiungere il suo obiettivo. C'è qualcosa in questa figura dal guardaroba impeccabile e dal torace pieno di cicatrici che per determinazione e capacità di vendersi ricorda il Don Draper di Mad Men, e che per spietatezza e inclinazione a mentire lo avvicina al Frank Underwood di House of Cards. Sono modelli imponenti, ma che non impediscono al personaggio di ottenere una propria autonomia. Lontano da quella piatta superficie di indifferenza che gli vediamo dipingersi addosso nei primi episodi, Joe McMillan è una figura più stratificata e ricca di sorprese, e il suo cammino non sarà quello che ci potremmo aspettare.

D'altra parte il vero volto della serie, quello che davvero rimane impresso, e che viene accostato per somiglianza a quello della protagonista dello spot che si diceva prima, è Cameron Howe. Anche qui, la base di partenza non è particolarmente originale. Una giovane e bella esperta di programmazione, che fatica ad interagire con il prossimo, che agisce e si veste fuori dagli schemi. Eppure anche questa Lisbeth Salander (decisamente meno estrema) riesce ad uscire dal facile inquadramento del suo personaggio. Lo stesso dicasi per i coniugi che completano il cast principale, Gordon e Donna Clark (McNairy e Kerry Bishé) e per John Bosworth (Toby Huss). Nel primo episodio McMillan affermava "computers aren’t the thing. They’re the thing that get us to the thing", e la scrittura non fa altro che ricordarcelo per tutte le puntate successive, fino ad una conclusione che per alcuni personaggi ha il sapore della rivelazione interiore.

La rivoluzione informatica è presente, con i suoi tecnicismi e le sue particolarità, ma il nodo centrale della vicenda rimane sempre il percorso dei protagonisti, il contorto triangolo emotivo tra di loro, la stridente idea di una connessione – che più volte ritornerà nei dialoghi – che si contrappone a figure troppo chiuse in loro stesse. È il The Social Network di Fincher che si ripete, l'ossessiva, egocentrica e quasi folle ricerca del successo che deve colmare il vuoto esistenziale dei protagonisti, ma che non può farlo. E tutto questo in una storia che si permette più di una sorpresa, piccoli tocchi in una scrittura che spesso ci fa guardare ad una situazione sotto un certo punto di vista per poi scartare all'ultimo e mostrarci qualcosa di diverso. Ma anche un casting perfetto di volti e interpretazioni, una regia elegante curata per ben tre episodi da Juan José Campanella (Oscar al miglior film straniero nel 2010 al suo Il segreto dei suoi occhi), una gestione matura e incisiva del materiale, in quella che è la storia di un gruppo di persone che vince nonostante la sconfitta (o che perde nonostante la vittoria).

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