Halt and Catch Fire: la recensione
Il commento ad Halt and Catch Fire della AMC: una delle migliori proposte di sempre del network
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Una donna con dei biondi capelli corti corre a perdifiato verso uno schermo gigante in uno spaventoso scenario da 1984, quindi scaglia un martello contro il "grande fratello" e libera dalla schiavitù il mondo. È lo storico spot, che potete vedere qui, girato da Ridley Scott proprio nel 1984 per la Apple. La rivoluzione è in atto, il singolo si alza dalla massa, grida la propria autonomia e il proprio controllo sulla macchina. Oggi, esattamente a trent'anni di distanza, possiamo davvero dire di essere scampati a quella "massificazione"? Lasciando queste considerazioni da parte, e immergendoci in quel decennio, seguiamo le vicende di Joe McMillan (Lee Pace), Gordon Clark (Scoot McNairy) e Cameron Howe (Mackanzie Davis) e il loro tentativo di costruire un computer.
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Lo sguardo glaciale di Lee Pace, che si scioglierà sempre più andando avanti nella storia, inquadra un personaggio dal passato segnato e dalla morale distorta, che nella prima parte di stagione farà ricorso ai mezzi più bassi pur di raggiungere il suo obiettivo. C'è qualcosa in questa figura dal guardaroba impeccabile e dal torace pieno di cicatrici che per determinazione e capacità di vendersi ricorda il Don Draper di Mad Men, e che per spietatezza e inclinazione a mentire lo avvicina al Frank Underwood di House of Cards. Sono modelli imponenti, ma che non impediscono al personaggio di ottenere una propria autonomia. Lontano da quella piatta superficie di indifferenza che gli vediamo dipingersi addosso nei primi episodi, Joe McMillan è una figura più stratificata e ricca di sorprese, e il suo cammino non sarà quello che ci potremmo aspettare.
La rivoluzione informatica è presente, con i suoi tecnicismi e le sue particolarità, ma il nodo centrale della vicenda rimane sempre il percorso dei protagonisti, il contorto triangolo emotivo tra di loro, la stridente idea di una connessione – che più volte ritornerà nei dialoghi – che si contrappone a figure troppo chiuse in loro stesse. È il The Social Network di Fincher che si ripete, l'ossessiva, egocentrica e quasi folle ricerca del successo che deve colmare il vuoto esistenziale dei protagonisti, ma che non può farlo. E tutto questo in una storia che si permette più di una sorpresa, piccoli tocchi in una scrittura che spesso ci fa guardare ad una situazione sotto un certo punto di vista per poi scartare all'ultimo e mostrarci qualcosa di diverso. Ma anche un casting perfetto di volti e interpretazioni, una regia elegante curata per ben tre episodi da Juan José Campanella (Oscar al miglior film straniero nel 2010 al suo Il segreto dei suoi occhi), una gestione matura e incisiva del materiale, in quella che è la storia di un gruppo di persone che vince nonostante la sconfitta (o che perde nonostante la vittoria).