Halftime, la recensione

Il rebranding di Jennifer Lopez, gli ultimi 3 anni di carriera raccontati in un documentario che la rilancia come artista impegnata

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Halftime, il documentario su Jennifer Lopez, in uscita il 13 giugno su Netflix

Bisogna sempre diffidare dei documentari istantanei, che raccontano gli ultimi anni del proprio soggetto, perché non sono mai operazioni neutre e soprattutto non sono mai solo racconto o esaltazione, ma hanno sempre un fine. Quello di Halftime, lo si capisce ben presto, è il rebranding di Jennifer Lopez, cioè fomentare un cambio nell’opinione pubblica rispetto a chi sia Jennifer Lopez, quali idee e ideali siano attaccati alla sua figura e come si inserisca nel nuovo equilibrio dell’industria dello spettacolo. Un modo per rilanciarla.

Infatti da che la politica non l’ha mai toccata nemmeno da lontano (così tanto che il documentario stesso ne prende atto e lo racconta) adesso Jennifer Lopez è in prima linea sui diritti delle donne e ovviamente delle minoranze latinoamericane. L’aver partecipato all’halftime show del Superbowl del 2020 è l’apice di questo discorso e il documentario racconta la strada che l’ha portata lì.

Parte tutto da Le ragazze di Wall Street e il successo di quel film che metteva Jennifer Lopez sull’inedita strada dell’impegno politico e del cinema drammatico. La nomination ai Golden Globe (senza vittoria) e poi la mancata nomination agli Oscar sono nel documentario la dimostrazione che l’industria “non è ancora pronta” (nessuno dà conto di chi fossero e cosa avessero fatto vincitrici e altre nominate), l’halftime show la sua ricompensa e la rivincita. Nonostante sia stato condiviso con Shakira (“Perché l’industria pensa che ci vogliano due donne latinoamericane per fare il lavoro che i bianchi facevano da soli!”) è una performance tra carriera e politica, anti-trumpismo e ispirazione di piccole bambine che vedono in J.Lo il simbolo di tutto quello che possono diventare.

Halftime è pura costruzione di una mitologia, che come sempre rilegge anche il passato. La carriera da attrice di Jennifer Lopez diventa una carrellata di successi (che pure ci sono stati ma non proprio sempre sempre) e una serie di ruoli e interpretazioni sottovalutate (da Selena fino anche ai film come Un amore a 5 stelle!) e addirittura in chiusura, all’apice di tutto, anche uno dei suoi successi più noti viene trasformato in un inno politico. Let’s Get Loud da che è sempre stata una canzone spensierata su musica, amori e vita vissuta intensamente, diventa la parola d’ordine perché le ragazze latinoamericane si facciano sentire. Facciamoci sentire, non stiamo in silenzio, è il nostro momento, non potranno fermarci ecc. ecc.

Che un simile cambiamento, a 50 anni, sia arrivato per un'artista come Jennifer Lopez è degno di nota e dice tanto dei tempi che viviamo. Molto meno lo è un documentario che vuole rivedere la storia sia recente, sia della carriera del suo soggetto, per convincerci che lei sia sempre stata un’artista la cui grandezza non è stata riconosciuta come avrebbe dovuto. Soprattutto un documentario che trascura il dettaglio cruciale di questo ritorno di Jennifer Lopez, cioè che sia tutto intorno al suo corpo irrealmente in forma e ancora aderente a standard di bellezza da ventenni. Questa supremazia che viene proprio dal fisico e dalla capacità di incarnare ancora il corpo della star, di essere personaggio da passerella, di poter stare al centro del gossip e del desiderio (sia quello maschile che quello femminile di identificazione), era forse la storia più clamorosa, in qualsiasi senso la si intenda. Che una donna a 50 anni veda un ritorno di carriera importante e potente grazie alla potenza del proprio fisico, è al tempo stesso uno strumento di potere (come in Le ragazze di Wall Street) che una conferma di molte storture dei media. Ma non è quello che interessa a Halftime.

Continua a leggere su BadTaste