Gunpowder Milkshake, la recensione
Tutto il setting da fumetto e i richiami a mondi sofisticati non fanno di Gunpowder Milkshake un John Wick femminile
Navot Papushado è tornato dopo 7 anni di silenzio per una missione più che per un film. Lui era stato regista nel 2013 del film israeliano Big Bad Wolves, una vera rivelazione. Poi il silenzio e ora questa copia sbiadita di John Wick che sostituisce gli uomini con le donne, ma che non ha mai la forza di centrare i punti di forza della serie di film con Keanu Reeves ed è tutto concentrato a riprendere donne che uccidono uomini, alla loro faccia. Gunpowder Milkshake ribalta le priorità: non vuole fare prima di tutto un buon film con delle donne nei ruoli in cui solitamente ci sono degli uomini (come Hunger Games, Monster Hunter, Zero Dark Thirty o Atomica bionda), ma al contrario vuole ammassare elementi di diversità, inclusività, cucendogli intorno un film modaiolo a sufficienza perché venga digerito. Il risultato, non stupisce, è il minimo dell’onestà cinematografica.
Un’idea molto forte Gunpowder Milkshake ce l’avrebbe pure, cioè il fatto che le armi sono nascoste e spacciate all’interno dei volumi dei romanzi di Emily Bronte, Virginia Woolf e Jane Austen. Quelle opere sono come armi per una donna. In un altro film sarebbe stato un passaggio cruciale, qui invece si perde in una storia d’azione che non è in grado di fare azione. Gunpowder Milkshake tenta di imitare le coreografie molto tecniche di John Wick, ma ha bisogno di velocizzarli artificialmente e non lavora per niente sugli attori come performer, non sembra esserci nessun tipo di allenamento ma le consuete goffe movenze che si traducono in voli impensabili degli stuntmen che le prendono.
L’obiettivo meritevole di ampliare lo spettro di sessualità e origini dei personaggi è così sbattuto in faccia da far assomigliare il film ad una lezione. Alle librarie che aiutano le protagoniste (tra cui c’è Michelle Yeoh, l’unica che conosca cosa sia l’azione) verrà detto dal cattivo dei cattivi: “Statene fuori signore, non è la vostra battaglia” così che possano rispondere didascalicamente “Non possiamo più starcene da parte. È ora che tutti scelgano da che parte stare”. Tutto giusto, ma così programmatico, sbattuto in faccia e dosato con il misurino da cancellare ogni spontaneità e oscurare qualsiasi piacere il film potesse suscitare con il suo racconto e la sua messa in scena.
Non aiuta poi il fatto che Navot Papushado e il suo co-sceneggiatore Ehud Lavski piazzino la grande battaglia conclusiva non in coda, ma nel prefinale, così che una volta finita in realtà manchino ancora più di venti minuti al termine del film.