Grotto, la recensione

Cinema per ragazzi che non lo è veramente, promozione del territorio mascherata da opera narrativa, Grotto è inqualificabile

Critico e giornalista cinematografico


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Un gruppo di preadolescenti sono coinvolti in un’avventura che non hanno cercato, prigionieri delle grotte di Frasassi ne dovranno uscire. C’è la Amblin a fare da ispirazione a questo film, ovvero lo spirito di I Goonies unito all’amicizia con un essere mai visto prima di E.T., uno con cui sviluppare una relazione che non passa per le parole ma sconfina subito nel sentimentale. O almeno questo era il piano, perché di tutto ciò in Grotto davvero non si vede l’ombra, tanto il film è un pasticcio lungo il quale si fatica a trovare la strada dell’uscita, un prodotto paratelevisivo che del linguaggio del cinema e della complessità dei film migliori non ha nemmeno l’impressione.

Scritto con pochissimo brio e girato alla buona, Grotto compie una serie di scelte difficili da comprendere che nemmeno gli giovano, ma anche là dove si muove sui canoni del genere cui aspira ad appartenere lo fa in maniera maldestra e poco avveduta.
Non è ben chiaro ad esempio come mai ogni forma di azione sia fuori campo. Svenimenti, cadute, risse o altri momenti in cui avviene un fatto non sono inquadrati, al massimo se ne sente il rumore mentre è inquadrato chi lo guarda e poi ne viene mostrato l’esito. All’inizio è una scelta straniante ma con il procedere del film diventa semplicemente fastidiosa. Come fastidioso è l’uso della musica che entra ed esce dalle scene inspiegabilmente, senza essere usata né in armonia, né in contrasto, né in contrappunto.

Eppure, al di là di una realizzazione raffazzonata, il vero problema di questo film per ragazzi è di non essere mai davvero per ragazzi, Grotto cioè non ha nulla del brivido, della tensione e dell’eccitazione che contraddistingue quel tipo di avventure. Al contrario è una specie di storia rassicurante, che simula un po’ di pericolo ma in realtà parla con la voce di un genitore idealista e per avvicinarsi al pubblico infantile fa parlare un personaggio per rutti.
I veri ragazzi non solo non parlano né si comportano come quelli di Grotto ma non hanno nemmeno quella maniera di relazionarsi tra di loro, cioè non sono l’idillio dell’innocenza e il trionfo dell’ingenuità ma semmai il massimo del cinismo.

Capitolo a parte poi lo merita il personaggio che dà il titolo al film, la creatura delle grotte disegnata come una stalagmite con gli occhi. Prodotto in computer grafica sotto ogni standard europeo (quelli americani o asiatici non li tiriamo nemmeno in ballo), quasi immobile e relegato a pochissime espressioni ripetute in continuazione, oltre ad essere il trionfo delle velleità è anche un espediente di trama non necessario e pretestuoso.
Non serve davvero al film ma sottolinea semmai l’ambientazione (le grotte di Frasassi), come del resto fa tutto il film, più in grado di mostrare i luoghi promossi dalla film commission Marche che i propri personaggi, più intento a piazzare luci nelle grotte che alla coerenza della trama o dell’ambientazione (perché ci sono luci colorate in una grotta? Perché negli sfondi sembra sempre di intravedere una luce dietro l’angolo che suggerisce ci sia un’uscita dalla grotta?).

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