Greyhound: il nemico invisibile, la recensione
Compresso, chiuso nel suo dispositivo di pura azione, Greyhound rivela un regista Aaron Schneider e uno sceneggiatore: Tom Hanks
A partire da un romanzo di C. S. Forester che racconta la vera storia di quando 37 navi alleate ingaggiarono una lotta contro diversi sottomarini nazisti in mare aperto, Hanks scrive un film tutto dal punto di vista del capitano Ernest Krause e della sua personale battaglia per non affondare e sconfiggere il nemico invisibile. Non è un film su una ciurma ma su un uomo e sulla ciurma che lo guarda. Un uomo solo, con mille figli, i suoi marinai, tutti ragazzini.
È la narrazione in sé ad essere protagonista fin dall’inizio, la narrazione e il montaggio sia visivo che sonoro.
Già dalla prima scena è un alternare quasi matematico e regolare tra volti dei marinai, sonar, mare in tempesta e volto di Tom Hanks. A rotazione. Tutti sono fermi e fissi tranne lui, il capitano, che si muove di oblò in oblò e così facendo, con i suoi movimenti e le sue espressioni, regge tutto. Hanks guardando fuori dagli oblò e raramente verso altri esseri umani regge una lunghissima scena introduttiva che ci butta nel mood del film e ne introduce il passo pazzesco. Un passo che non verrà mollato fino alla fine.
È una storia di una guerra astratta, come sempre nel cinema di sottomarini, cioè è uno scontro che in linea di massima non vediamo se non tramite i suoi simulacri (il sonar, i disegni sulla mappa o le distanze espresse a parole) e ovviamente tramite il volto dei personaggi che la combattono in una continua attesa per l’esito delle proprie mosse. Come il capitano guardiamo il mare e non sappiamo dove sia il nemico, guardiamo altre navi esplodere e guardiamo missili già sparati. Le dinamiche sono nella nostra testa. Solo quando viene messo a segno il colpo lo scontro diventa visibile e il godimento esplode tutto insieme.
Greyhound è un dispositivo di pura tensione e soddisfazione, un tripudio di lavoro sul sound design, il missaggio e il montaggio sonoro che meriterebbe l’oscar, in cui non ci sono archi narrativi ma solo la concentrazione sullo sforzo. Se film come U571 necessitano di un percorso per i loro personaggi (lì c’è un capitano che deve dimostrarsi all’altezza di quel ruolo e maturarlo dentro di sé), Greyhound sembra avvenire dopo tutto ciò, sembra essere la seconda parte di un film.
L’azione è l’unica cosa che conti (e paradossalmente è nella nostra testa, i personaggi sono spesso fermi) e dentro essa c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno (sentimenti, epica, difficoltà, forza e incredibili sguardi dei marinai su un uomo che senza dirlo sa di dover essere all’altezza di quelle aspettative). Hanks è così bravo, e si concentra così bene a scrivere il suo personaggio da trovare diversi appigli, dargli con due note e due espressioni anche l’umanità straordinaria che riconosciamo ai suoi personaggi.
Certo ruba un po’ tutto al lavoro che ha fatto con Spielberg per Il ponte delle spie (nel creare questa persona infreddolita, con i piedi distrutti e affamata che lotta per tutti per poi crollare sul letto). Ma anche per sapere da chi attingere ci vuole genio.