Greta, la recensione | Venezia 77

Il documentario che costruisce la mitologia di Greta per strappare la sua immagine al dominio dei media e iniziare a gestirla diversamente

Critico e giornalista cinematografico


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Qualsiasi costruzione di un leader contemporaneo passa per l’audiovisivo, per un documentario o un film che ne riassuma la vita o la carriera, rilanciandone ii valori con un comparto immagini che arrivi dove le parole non possono. Greta Thunberg non è un leader nel senso vero della parola, ma è un simbolo, un’attivista il cui volto è diventato emblema di una causa che prima non aveva volti. Questo documentario di Nathan Grossman, che le è stato accanto dal primo giorno (aveva ricevuto una soffiata su questa bambina che voleva scioperare ed era andato a riprenderla per farci un corto), cerca di raccontare non tanto la battaglia di Greta, ma lo sforzo e l’ingenuità autentica che stanno dietro. Nella negoziazione dei significati dell'immagine di questa ragazza, questo documentario è il primo atto che si oppone ai media (che finora sono stati gli unici a decidere quale dovesse essere l'immagine di lei che ci arriva), e per questo lavora esattamente su tutto quello che i media tradizionali non hanno mostrato.

L’obiettivo dichiarato è ovviamente smentire molte delle accuse che le vengono spesso rivolte, soprattutto quella di essere un pupazzo nelle mani di altri. Per questo vediamo molte scene in cui prepara discorsi, viaggia in economia con il padre, parla dietro le quinte con leader mondiale dimostrando di non essere agita ma avere una propria agenda. Il secondo è di raccontarla al di fuori dell’immagine scontrosa che ne esce dai media.

Greta ride! Scherza, si diverte ma ogni tanto ha dubbi, rimpiange quel che ha fatto e si arrabbia con disperazione. Il ritratto umano di una bambina affetta da Asperger (che quindi risulta sempre un po’ distante da tutto) è il tentativo di capirne la dedizione.

Grossman però è davvero troppo grossolano per andare a fondo. Si limita ad individuare alcuni tratti importanti (la contrapposizione tra giovani e adulti sul tema dei cambiamenti climatici) e a utilizzare l’Asperger come chiave per capire tutto. Due frasi naive da morire aprono e chiudono il documentario: “A volte sembra che noi malati di Asperger siamo gli unici a vederci chiaro” e “Alle volte penso che sarebbe bene se ognuno avesse un po' di Asperger, almeno per quel che riguarda il clima”. Annunciando e chiudendo il minimo della riflessione su una figura importantissima del nostro tempo.

Tocca allora allo spettatore rimboccarsi le maniche e andare a cercare nei meandri del documentario le parti più interessanti a cui il regista sembra dare poco spazio. Sono ad esempio i controcampi di ascolto dei leader mondiali durante i discorsi di Greta che ben conosciamo, o anche le fasi prima e dopo quegli eventi. Lì emerge con una evidenza che nessuno fa nulla per nascondere come la politica la inviti e la ascolti per questioni di immagine. Può non suonare come una novità ma la sfacciatagine con cui è esibita impressiona. L’esposizione di Greta sotto i riflettori è quasi ostentata.

Certo non è difficile fare di queste figure politiche dei villain, impermeabili a tutti e alteri, là dove Greta sembra invece inesorabile e sempre a fuoco (per l’appunto, l’epica del leader che avrà pure momenti di difficoltà ma quando serve è affidabile), ma davvero Greta, il documentario, sembra non aver capito niente. Ha immagini pazzesche, sta dove era cruciale stare, eppure di tutto ciò fa l’utilizzo più blando.

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