Green Book, la recensione

Senza smentire mai le aspettative del pubblico Green Book riesce a perdere la partita ideologica ma a vincere quella umana

Critico e giornalista cinematografico


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Durante tutta la visione di Green Book l’impressione è che l’unico lavoro di scrittura fatto sul film sia stato quello di scambiare di posto i personaggi, mettendo un bianco alla guida stipendiato da un nero nel sedile di dietro, entrambi in viaggio per una serie di concerti di alto profilo in un territorio ad alto rischio come gli stati più razzisti nell’America di bassa tolleranza degli anni ‘60. Invece Green Book si rivela un pezzo di cinema americano classico che pur rifuggendo lo stesso oggetto della sua trama (la questione razziale), rievoca dal passato tecniche e scritture, per renderle il più attuali possibile con i suoi attori. E alla fine pur perdendo sul piano della riflessione razziale, vince ogni ritrosia sul piano umano.

Per aggiungere dubbi ad altri dubbi va detto che la parabola superficiale del film è anche ideologicamente discutibile. Green Book cerca disperatamente di piacere a tutti, anche a chi non possa dirsi davvero progressista, perché sposta la questione razziale sul territorio personale. È sempre la massa a essere discriminata, più raramente i singoli, e questo è un film sui singoli, su un uomo razzista che si ravvede lavorando a stretto contatto con un afroamericano eccezionale. L’eccezionalità è parte del dribbling ideologico. Perché Don Shirley è presentato come un nero bianco, lo stesso autista glielo rinfaccia quando afferma di non conoscere musicisti neri popolari come Little Richie. Di fatto in lui non c’è traccia di cultura nera, è un bianco con la pelle di un altro colore. La grande differenza tra i due è più sociale che altro.
Per giunta anche un ambito spinoso come l’omosessualità di Don Shirley è svicolata con abilità o meglio è un dettaglio che il film affronta esattamente con la noncuranza con la quale lo affronterebbe l’autista Tony Vallelonga: una repentina tolleranza data dalla conoscenza maturata associata a una voglia smodata di dimenticare quel particolare il più in fretta possibile.

A fronte di tutto questo però Green Book ha anche una forza che è impossibile non riconoscere, una che non sta di certo nelle scelte fatte né nell’impostazione ma è tutta nell’esecuzione.

Peter Farrelly, con l’esperienza di commedia scorretta che si ritrova gira un film correttissimo nel quale l’umorismo scoppia potente ed è sempre tenuto al guinzaglio con dovere, in cui i due attori guidano la messa in scena, la indirizzano e sono in grado di aggiungere senso. Mahershala Ali è scelto benissimo (in Moonlight quasi stonava la sua eleganza e sobrietà, qui invece è perfetta) e anima bene l'uomo imbrigliato nelle regole sociali, timoroso di sembrare un nero e voglioso di legittimazione. Ma è in particolare Viggo Mortensen a risaltare (anche per via di un ruolo più sotto il riflettore). Da solo aggiunge al film dettagli che non stanno nella sceneggiatura ma risiedono solo nelle sue espressioni. Da nessuna parte è detto o indicato che il suo Tony sia addirittura fiero di Don Shirley come fosse un figlio, eppure quando lo guarda esibirsi non leggiamo solo la maturazione del rispetto, ma anche una certa fierezza di essere proprio lui il suo autista. Ed è farina di Mortensen.

La parabola più che usuale di questa strana coppia tocca tutti i punti necessari per non sorprendere nessuno e soddisfare tutti, è un viaggio in cui piccole umiliazioni sono sanate dall’amicizia e dal rispetto maturato da un uomo ignorante ma di buon cuore, partito razzista e tornato amico di un nero nella notte di Natale. È un film da Hollywood degli anni ‘50 o inizio ‘80, materiale che non si gira più nelle cui pieghe però sta l’umanità di cui è capace il cinema americano mainstream, anche quando ha paura di turbare animi.

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