Green Blood, la recensione
Masasumi Kakizaki ci porta con Green Blood nell'America della seconda metà del '800, attraverso un manga western crudo e toccante, dai disegni mozzafiato.
Classe 1971, ha iniziato a guardare i fumetti prima di leggerli. Ora è un lettore onnivoro anche se predilige fumetto italiano e manga. Scrive in terza persona non per arroganza ma sembrare serio.
Masasumi Kakizaki ci propone con Green Blood, una miniserie di cinque tankobon, ambientata nell'America della seconda metà del '800; per la precisione a Manhattan, nel quartiere di Five Points, uno dei più malfamati di allora, per la povertà, il degrado e la malavita, teatro di scontro di alcune spietate bande rivali.
L'autore giapponese dipinge un affresco crudo e potente di quel mondo, attingendo dalla realtà storica e tessendone sopra la trama della finzione incentrata attorno ai due fratelli Burns; il giovanissimo, ingenuo Luke e il micidiale bounty killer Brad, conosciuto come “Grim Reaper”, il “Dio della Morte”.
La vicenda nasce e si sviluppa a New York, ma Kakizaki le conferisce ampio respiro e il racconto diventa un'epopea e un viaggio attraverso gli Stati Uniti e lo scorrere degli anni. I ragazzi crescono e maturano, attraversano Missouri, Kansas, Montana guidati da una sete di vendetta che avrà soddisfazione solo quando sarà morto Edward King, il brutale padre e assassino della madre, un pistolero che fondò la gang dei Grave Diggers e li abbandonò nelle mani del socio, Gene McDowell. Green Blood si trasforma nel viaggio e nella lotta dei due fratelli, sfiorando i temi forti di quell'epoca, l'immigrazione verso il sogno americano, la schiavitù e la discriminazione razziale, l'umiliazione e lo sterminio dei pellerossa.