Great Freedom, la recensione
La nostra recensione di Great Freedom, film ambientato nella Germania del dopoguerra sulla condizione omosessuale
La recensione di Great Freedom, disponibile su MUBI dal 26 gennaio
Il film infatti, da lì in poi, si stringe intorno alle celle del carcere, al viso di Rogowski. In un confuso avanti e indietro nel tempo, Sebastian Meise cerca di portarci nell’intimità di Hans, nel clima di oppressione della Germania del dopoguerra, nelle contraddizioni di quel momento storico e di quella situazione particolare (che ha a che fare con il passato di Hans). Eppure le dinamiche sono ripetitive, i personaggi significativi della vita di Hans sono confondibili (e non si capisce se questo sia volontario o no). Insomma l’impressione è che Great Freedom abbia l’intenzione, più che di denunciare o raccontare con perizia storica una situazione, di narrare “per derivazione” dal personaggio di Hans tutto quello che gli sta intorno, come volesse innalzarlo a exemplum di una situazione generale senza però avere la capacità di scrivere un personaggio significativo.
La cosa peggiore è però il fatto che alla fine dei conti, pur mettendo in campo tanti temi, tante dinamiche, tanti non detti - soprattutto nella relazione di Hans con il suo storico compagno di cella, che ritrova nel corso degli anni (Georg Friedrich) - Great Freedom non sa portare a compimento nessuno di questi discorsi. Come se Sebastian Meise si aspettasse, con non poca ingenuità, che le sole immagini possano parlare da sé. Peccato che dietro c’è bisogno di un’idea, e a confermarlo c'è il pessimo finale.
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