Grandine, la recensione

Dentro una cornice ancorata alla contemporaneità, Grandine propone una storia convenzionale, di cui ripropone i più classici passaggi. La recensione

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La recensione di Grandine, disponibile dal 30 marzo su Netflix

Trattare un tema moderno con un'approccio desueto può essere molto rischioso, soprattutto se poi si scade nella più totale prevedibilità. È quello che accade in Grandine, film diretto da Marcos Carnevale che ha come protagonista Miguel Flores (Guillermo Francella) un meteorologo della TV argentina divenuto una celebrità e venerato dalla folla. Ultimamente, però, il valore della sua professione è minato dalle tante app e servizi telefonici che danno immediate informazioni sul meteo; a fronte di questa realtà, Miguel continua così a rivendicare la propria infallibilità e la superiorità dell'uomo sugli algoritmi, e ha ora l'occasione per dimostrarlo. Dopo vent’anni in cui si era occupato di una rubrica del telegiornale, gli viene assegnata la conduzione di un intero programma in prima serata, Lo show del tempo. Durante la prima puntata, però, un errore gli costa caro: garantisce cielo sereno ma nella notte una forte grandine colpisce la città di Buenos Aires, provocando enormi danni. La reazione non si fa attendere e tutti coloro che lo avevano amato ora lo insultano, di persona e sui social.

L’indefessa fede alle parole pronunciate in televisione, la carica di odio che ne scaturisce, il generale sistema dei media asservito alle richieste del pubblico. Grandine cerca dunque di fare uno spaccato di alcune tendenze della società moderna, ma si limita ad allestire piccole gag e personaggi caricaturali, a ricorrere ad una patina fatiscente che vorrebbe essere corrosiva. Manca qualsiasi intento satirico o veramente graffiante verso l’universo che descrive: le dinamiche sono più quelle classiche da commedia che si concentra sulle avventure tragicomiche del protagonista.

Solo per un breve passaggio, quando sono portate all’estremo la reazione del pubblico, le atmosfere diventano beffardamente paranoiche e angoscianti: il protagonista pare di scorgere uno sguardo giudicante dovunque vada e viene assediato nella propria casa dagli spettatori pronti a linciarlo. Nel suo momento migliore, però, il film preferisce disinnescare questa carica e prendere un’altra strada, rivelando la sua vera natura e intenzioni.

Miguel, ormai licenziato e senza un futuro, per sfuggire alla gogna mediatica è costretto a tornare a Córdoba, la sua città d’origine, dove vive la figlia, dalla quale cercherà alloggio e riparo. Se fossimo nel cinema di Pedro Almodovar, il "ritorno a casa" assumerebbe valenza significativa, come una profonda riscoperta di se stesso e delle proprie radici. Oppure, come ne Il cittadino illustre, potrebbe diventare grottesco ritratto che colpisce sia l'arroganza del protagonista che l'arretratezza dei compaesani.

In Grandine, invece, è solo veicolo per l'incasellamento dell'intreccio in binari del tutto prevedibili. Così, padre e figlia, entrambi imperfetti, il primo ancorato al passato, il secondo al presente, troveranno occasione di riconciliazione e di superamento delle proprie reticenze. Così, se la grande città è il covo di eccessivi odi, la provincia è ambiente confortante, in cui venire caldamente accolti e in cui ritrovare il vero sé. Così, infine, quello che conta è l’edificante parabola del protagonista, verso un esito scontato.

In quest’orizzonte, il film smussa tutti gli spigoli dei caratteri dei personaggi; in particolare il protagonista, che all’inizio poteva sembrare sfaccettato, nel suo essere vanesio e arrogante, emerge alla fine come completamente positivo, con buona pace di qualsiasi sottigliezza di scrittura. Dentro una cornice ancorata alla contemporaneità, nient'altro che la solita storiella famigliare e di buoni sentimenti.

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