Grand Tour, la recensione | Cannes 77
Con Grand Tour Miguel Gomes continua brillantemente la sua riflessione sperimentale sui lasciti del colonialismo.
La recensione di Grand Tour, il nuovo film di Miguel Gomes presentato a Cannes 77
La formula di questa strana alchimia la esponeva proprio Miguel Gomes nel primo episodio del suo monumentale Mille e Una Notte (2015): se si vuole fare cinema politico (perchè si vuole) è meglio il realismo o la trasfigurazione magica? La risposta, in quel film come in Grand Tour, è "tutti e due". Tutti i film di Gomes toccano temi sociopolitici, dal razzismo alle politiche di austerity del Portogallo moderno, fino agli strascichi economici e culturali dell'Imperialismo. Ma lo fanno in modo indiretto e straniato, lavorando sulle immagini e giustapponendo forme di racconto che con quel discorso non sembrano avere alcun nesso diretto (ma ovviamente ce l'hanno). C'è una scena in Grand Tour che riflette proprio su questo: Gomes inquadra prima i burattinai di un teatro cinese, poi si sposta dall'altra parte del telo e mostra il loro spettacolo. Il racconto e i suoi ingranaggi, il Reale e l'Immaginario.
Questa struttura debole consente a Gomes di lavorare in modo libero, come in un flusso di coscienza che però non è mai davvero irrazionale, ma ragiona incessantemente sulla materia trattata. Grand Tour è una straordinaria rappresentazione "sognata" della globalizzazione e dell'incontro fra culture a cui diede origine il colonialismo europeo. Le coordinate spazio-temporali collassano su sè stesse, mettendo in relazione la Storia di ieri con le sue conseguenze attuali, la penetrazione europea dell'Oriente con l'urbanizzazione di oggi, le narrazioni del XIX secolo con le culture native e coi discendenti di entrambi.
Come sempre Gomes sa essere tagliente - vedi l'episodio della chiatta - ma rispetto alla satira di Mille e Una Notte stavolta a emergere di più è il suo amore per il racconto, il Mito e il "canto", inteso in senso quasi omerico come tessuto connettivo dell'umanità, che lega popoli e nazioni consentendo risultati imprevedibili: un avventore filippino di un karaoke che canta My Way. Canti tradizionali vietnamiti, cinesi, tailandesi, ma anche canzoni marinare inglesi e opera lirica. Qualcuno suona perfino una pianta dalle spine lunghissime come se fosse uno strumento a percussione. E poi rappresentazioni teatrali, coreutiche, mitologiche da tutti gli angoli dell'Asia. Se fosse solo un film storico sull'Imperialismo, o solo un film di viaggio esotico, Grand Tour non potrebbe raggiungere questa complessità. Per fortuna il suo regista ha "deciso di non decidere".