Granchio nero, la recensione
Impostato come una serie tv e molto vicino ai modelli americani, Granchio nero sembra però non aver capito cosa rende quei modelli dei modelli
Serialità che travasa al cinema. Tutto il look tra reale e digitale sfoggiato da Granchio nero, ma anche il suo palleggiare tra flashback e presente di una protagonista che, lo vediamo all’inizio, è stata separata dalla figlia allo scoppio di un non ben precisato conflitto urbano, e il suo coccolare a lungo i misteri della storia, vengono dritti dalle regole della televisione, fatta di scrittura prima che di immagini, in cui l’intreccio, il rimando delle soluzioni e il mistero sono armi più che scelte. Con questo Adam Berg costruisce il suo esordio, un film apocalittico (perché non sì svolge dopo ma durante) in cui una guerra non chiara ma civile (tra svedesi) ha trasformato una madre ex grande pattinatrice in un soldato. Serve la sua fazione ma è sempre in cerca della figlia, che non sa nemmeno se sia viva. Quando le viene promesso di trovarla in cambio di una missione mortale (ma lei che è pattinatrice può farcela) non esita.
Sono le motivazioni un po’ stentate dei protagonisti; sono i comprimari senza nessuna personalità e totalmente dimenticabili, che creano un mondo fasullo; è la decisione di non rivelare mai come mai queste due fazioni di svedesi abbiano creato una guerra che ha distrutto il loro mondo (perché non importa la ragione, il conflitto è sempre sbagliato) quando però tutto l’ultimo atto è fondato su un dilemma morale (e se non so perché c’è la guerra quel dilemma faccio fatica a farlo mio); o ancora è la recitazione stolida di Noomi Rapace che va per conto suo e non si relaziona agli altri…