Granchio nero, la recensione

Impostato come una serie tv e molto vicino ai modelli americani, Granchio nero sembra però non aver capito cosa rende quei modelli dei modelli

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Granchio nero, disponibile su Netflix dal 18 marzo

Serialità che travasa al cinema. Tutto il look tra reale e digitale sfoggiato da Granchio nero, ma anche il suo palleggiare tra flashback e presente di una protagonista che, lo vediamo all’inizio, è stata separata dalla figlia allo scoppio di un non ben precisato conflitto urbano, e il suo coccolare a lungo i misteri della storia, vengono dritti dalle regole della televisione, fatta di scrittura prima che di immagini, in cui l’intreccio, il rimando delle soluzioni e il mistero sono armi più che scelte. Con questo Adam Berg costruisce il suo esordio, un film apocalittico (perché non sì svolge dopo ma durante) in cui una guerra non chiara ma civile (tra svedesi) ha trasformato una madre ex grande pattinatrice in un soldato. Serve la sua fazione ma è sempre in cerca della figlia, che non sa nemmeno se sia viva. Quando le viene promesso di trovarla in cambio di una missione mortale (ma lei che è pattinatrice può farcela) non esita.

Sarebbe pure un’idea interessante quella di immaginare un film come fosse il pilota di una serie, solo con un finale che chiude e non rimanda in avanti, ma Granchio nero ha il problema di aver studiato (e bene) tutto quello che c’è da studiare senza però aver capito fino in fondo. Il film è perfetto, ha la credibilità giusta, l’arco narrativo giusto, il look giusto, il montaggio, le musiche e gli attori giusti. Ma come anche per i migliori falsi, qualcosa non va. Avvicinandosi per guardare meglio è possibile anche capire perché, notare i mille piccoli dettagli fuori posto che tutti insieme gli impediscono di somigliare davvero ai suoi modelli oppure tutte le macroscopiche convenzioni che non servono mai a proteggere delle peculiarità uniche.

Sono le motivazioni un po’ stentate dei protagonisti; sono i comprimari senza nessuna personalità e totalmente dimenticabili, che creano un mondo fasullo; è la decisione di non rivelare mai come mai queste due fazioni di svedesi abbiano creato una guerra che ha distrutto il loro mondo (perché non importa la ragione, il conflitto è sempre sbagliato) quando però tutto l’ultimo atto è fondato su un dilemma morale (e se non so perché c’è la guerra quel dilemma faccio fatica a farlo mio); o ancora è la recitazione stolida di Noomi Rapace che va per conto suo e non si relaziona agli altri…

Accade così che quello che in superficie sembra un postapocalittico ben diretto, corretto e giusto, poi alla fine non acchiappi, non coinvolga e non vinca su nessuno dei tavoli su cui gioca. Poteva essere un clamoroso specchio involontario di fatti d’attualità che non poteva aver previsto. E invece no. Poteva mettere davvero in crisi lo spettatore, con un dilemma davvero duro creato attorno ad una madre in cerca di figlia. E invece no. Sceglie di essere la copia sbiadita di mille modelli statunitensi senza aver compreso cosa li renda a tutti gli effetti dei modelli da seguire, ovvero la capacità di bilanciare la precisione e correttezza di una messa in scena accattivante, con qualcosa di sghembo, storto e audace in scrittura.

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