Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile, la recensione

La recensione di Gran Turismo - La storia di un grande sogno, il film tratto dal talent show GT Academy e ispirato a una storia vera

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile, il film ispirato dall'omonimo franchise videoludico e al programma GT Academy che esce il 20 settembre in sala

Questo adattamento di un videogioco prende le mosse da una storia vera. Cosa che è particolarmente accurata visto che Gran Turismo è una simulazione e quindi, come viene anche detto nel film, non è propriamente “un gioco”. Così anche il film non è propriamente un’avventura ma più cinema sportivo. È il resoconto in forma di finzione di quando la Sony decise di prendere i migliori giocatori di Gran Turismo e trasformarli in piloti veri in vere gare nel talent show GT Academy, e di come poi alcuni di questi (nel film uno solo) siano anche arrivati a podi importanti e vinto gare. Quindi è un film che adatta un talent show che prendeva le mosse da un videogioco. E del resto del talent show ha l’etica di fondo: raccontare come un non ben precisato talento e l’aiuto di illustri grandi nomi del settore possano consentire a persone comuni di bruciare le tappe e accedere ai loro sogni senza la consueta trafila.

Nonostante le provenienze eterogenee tutto questo è uno spunto perfetto per un film, perché contiene una storia di trionfi sportivi attraverso la dedizione, all’interno di un ambiente ostile. Qualcosa però deve essere andato storto da qualche parte perché Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile sembra a ogni singola scena compiere la scelta peggiore possibile e non avere mai la capacità di raccontare la sua storia. Questo si vede già a livello di impostazione della trama: la dialettica tra “giocare ai videogiochi” e “andare a dare due calci a un pallone all’aria aperta” è quella su cui a lungo si basa tutto il racconto di questa ascesa. L’idea è che i videogiochi siano in aperto contrasto con la realtà (il numero di volte che viene detto qualcosa sul tema di “Questo non è un videogioco” è impossibile da contare) e il protagonista dovrà colmare questo gap. Così facendo, però, il film non mette mai in relazione l’esperienza di campione videoludico del protagonista con il suo percorso da vero pilota. Almeno fino all’ultimissima sequenza, quando finalmente un problema reale si risolverà grazie a qualcosa di imparato nelle simulazioni e in modi possibili solo nei videogiochi. In questo modo il contrasto tra mondo vero e quello simulato rimane sempre nelle affermazioni e mai nel film.

Ma sarebbe anche il minimo in un film che non ha nessuna fiducia nei propri spettatori e che, convinto di dover inseguire un pubblico distrattissimo e digiuno di tutto, non fa che spiegare di continuo le medesime cose, incluse le gare e il loro racconto. Mai le corse (vere o simulate) sono raccontate per immagini, ma sempre con affermazioni che spiegano posizionamenti e cosa ognuno debba fare. Non solo: anche la trama (gli obiettivi dei personaggi e quello che potrebbe impedir loro di arrivarci) viene illustrata di continuo. Con queste premesse poi non stupisce che ogni gara importante che viene corsa finisca nella stessa identica maniera. La dinamica interna di sfida si ripete uguale ogni volta, inclusa la maniera in cui arrivano la vittoria o la conquista dell’obiettivo.

Che tutto questo sia diretto da Neill Blomkamp, regista di District 9, Humandroid ed Elysium, è realmente sorprendente. Perché in questo film, nelle pieghe di una sceneggiatura già folle, una storia c’era. Non solo quella di trionfo di un outsider ma anche quella di un approccio non convenzionale a qualcosa di tradizionale, una storia della videoludica non tanto come effettiva simulazione affidabile (che è la retorica di cui il film è imbevuto esponendo di continuo la sua natura pubblicitaria) ma come strumento di esperienza attraverso il fallimento, tentare e ritentare, morire e ricominciare di continuo fino a migliorare e trovare maniere personali ed efficaci per raggiungere un obiettivo. Era una storia anche buona per Blomkamp, ma qui non c’è nessuna volontà reale di fare un grande film.

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