Gotti - Il primo padrino, la recensione

La storia di John Gotti raccontata a partire dalle sue due famiglie, quella vera e quella mafiosa

Critico e giornalista cinematografico


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Che qualsiasi film di gangster newyorkesi che voglia dirsi ancorato alla realtà quanto a scene, ambienti, costumi, luoghi e lingua finisca per girare dalle parti di Martin Scorsese è abbastanza comprensibile, poiché di fatto quell’immaginario nel cinema moderno l’ha fondato lui. Per questo Gotti - Il Primo Padrino non è tanto da biasimare nella maniera in cui aderisce a Quei Bravi Ragazzi in diverse scene, nell’uso della musica e in molti punti nell’uso della voce fuoricampo. È una mancanza di idee proprie su come rappresentare quel mondo che è comprensibile. Quel che del film è da biasimare, semmai, è l’incapacità di trovare un linea guida interessante nella vita del suo protagonista, in un film che solo quello dovrebbe fare.

A partire da un colloquio in carcere tra John Gotti anziano (nel 1999) e suo figlio facciamo avanti e indietro nel tempo in diversi momenti della vita del grande boss. Da giovane, quando i figli sono piccoli, poi quando sono adolescenti, le prime volte in carcere, l’elezione a boss della sua famiglia e i tantissimi processi… Al centro c’è la doppia famiglia, quella mafiosa e quella reale, il retaggio dei suoi figli e il rapporto che con gli altri appartenenti al clan nel momento in cui diventa un capo.

Ci dovrebbe davvero essere l’idea che Gotti sia diverso da tutti gli altri, ma il film oltre a dirlo a parole non ce lo fa capire. E questo nonostante abbia dei dialoghi indubbiamente ben scritti, acuti e intelligenti. Non è insomma un film noioso Gotti ma in più di un caso non si capisce cosa voglia dirci, sconfinando nella chiusa in una sorta di apologia che probabilmente vorrebbe essere un tocco di complessità (era un farabutto eppure era molto amato) ma goffa com’è riesce solo ad essere maldestra.

Tutto questo ovviamente avviene intorno addosso e sul volto di John Travolta, il cui trucco invecchiante (e ogni tanto ringiovanente) determina le varie fasi temporali del film, sulla cui pelle e nei cui capelli stanno i dettagli che ci fanno capire “quando” ci troviamo. Raramente negli ultimi tempi l’abbiamo visto impegnarsi così, lavorare con piccoli gesti e grande misura nelle reazioni (i piani d’ascolto forse sono la cosa migliore che fa in questo film) eppure, magia dei disastri cinematografici, anche la sua prestazione risulta sempre più fine a se stessa e poco utile. Un’interpretazione buona per riabilitarlo come attore ma non per creare un buon film.

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