Good Joe Bell, la recensione | TIFF 20
La performance di Mark Wahlberg e del giovane Reid Miller non salva Good Joe Bell, presentato al Toronto Film Festival, da un approccio datato e forzato che penalizza il risultato finale
Il progetto diretto da Reinaldo Marcus Green, presentato al Toronto Film Festival, con la sua struttura un po' in stile road movie e un continuo alternarsi di passato e presente, compie il quasi imperdonabile errore di non approfondire in nessun modo la figura del teenager vittima dei bulli mentre prova a vivere liberamente la propria omosessualità, delineandolo solo come un ragazzo incompreso e in difficoltà le cui amicizie, e amori, appaiono superficiali e irrilevanti, mentre il rapporto con la sua famiglia è ritratto senza alcuna sfumatura, enfatizzando il contrasto tra i comportamenti del padre e quelli della madre, ma senza mai dare il giusto spazio ai personaggi secondari.
La situazione prende una svolta tragica quando Jadin decide di togliersi la vita e Joe, alle prese con i sensi di colpa, decide di intraprendere un viaggio a piedi con destinazione New York con lo scopo di sensibilizzare le persone sulle conseguenze dell'intolleranza.
Il coinvolgimento di sceneggiatori del calibro di Diana Ossana e Lara McMurtry (Brokeback Mountain) suscitava grandi aspettative che sono state, quasi del tutto, non rispettate. La rivelazione legata alla morte di Jadin viene compiuta solamente a metà del film e durante una scena ambientata in un gay bar che sembra costruita proprio su quegli stereotipi che il progetto vorrebbe combattere.
Connie Britton è totalmente sprecata nella parte della madre di Jadin e basta la sola sequenza della disperata ricerca del figlio mentre teme il peggio per ricordare agli spettatori il talento cristallino dell'attrice. Il rapporto tra Joe e la moglie avrebbe meritato un'analisi più attenta e la presenza del secondo figlio, alla disperata ricerca dell'amore del padre che ha deciso di allontanarsi dalla famiglia per provare a trasformare se stesso e la morte di Jadin in qualcosa di positivo, è talmente mostrata a grandi linee che diventa quasi complicato comprendere l'amore che lega i tre personaggi.
Green, che aveva attirato l'attenzione con Monsters and Men e la serie Top Boy, fatica più del dovuto a gestire la necessità di mostrare gli eventi maggiormente drammatici e mostrarne le conseguenze, e la regia, come accaduto con la sceneggiatura, si limita a seguire strade già percorse con altri progetti e a costruire il crescendo emotivo sperando di coinvolgere il proprio pubblico.
A Good Joe Bell non può, e non dovrebbe, bastare il carisma di Wahlberg nel gestire i momenti all'insegna della solitudine e dell'introspezione e la freschezza di Reid Miller nell'interpretare Jadin con il materiale poco incisivo a propria disposizione per rivolgersi a un pubblico internazionale che meriterebbe un'opera maggiormente meditata e curata. Il film, sfruttando anche a proprio favore un'ottima fotografia firmata da Jacques Jouffret (The Purge) che valorizza l'elemento on the road del racconto, riesce comunque a commuovere in più punti, lasciando però la sensazione di assistere a un'occasione sprecata e poco in linea con i passi in avanti compiuti dal cinema, e dall'arte in generale, nel rappresentare la vita e le difficoltà delle persone omosessuali negli ultimi anni.