Gomorra - La serie: la recensione della doppia première

Gomorra - La serie: l'adattamento dell'opera di Roberto Saviano in una doppia première curata e avvincente

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce.

Questa era la didascalia tratta dal finale di Le mani sulla città di Francesco Rosi, opera di denuncia del 1963 incentrata sulla speculazione edilizia nel napoletano. Altri tempi, altre storie, eppure il filo rosso che unisce quel capolavoro alla trasposizione seriale dell'opera di Roberto Saviano sembra essere lo stesso. Perché se l'anima romanzata delle vicende legate alle attività criminali in Campania era quasi esclusivamente formale nel libro, necessariamente il film – quello del 2008 diretto da Matteo Garrone – e la serie tv devono andare oltre, immaginare, creare, trasporre in modo che il racconto assuma una forma narrativa, e non solo documentaristica. Da qui il legame con la citazione iniziale. Raccontare Gomorra significa raccontare in prima battuta un universo, un modello sociale, prima che economico, vibrante e vivo, ma anche tempestarlo di figure e accadimenti immaginari, per quanto prodotti da quella realtà. Ci si aspettava tanto da Gomorra – La serie, e il doppio appuntamento andato in onda su Sky Atlantic nei giorni scorsi ha ripagato ampiamente le premesse. Molto probabilmente siamo di fronte ad una delle migliori produzioni italiane di sempre.

Prodotta da Sky, Cattleya e Fandango, in collaborazione con LA7 e Beta Film, la serie si muove a partire dall'inevitabile confronto con Romanzo Criminale – La serie. Troppi i punti in comune per poterli ignorare. Un'opera letteraria come punto di partenza, il precedente cinematografico, il team produttivo e perfino il regista alle spalle. Stefano Sollima, regista della serie insieme a Francesca Comencini e Claudio Copellini, è infatti la mano dietro la macchina da presa dei primi due episodi andati in onda sui dodici complessivi. Se di differenze si deve parlare – anche se è comunque troppo presto per fare un confronto completo – allora queste potrebbero essere individuate nella diversa prospettiva nella quale viene incanalata l'intera vicenda. In Romanzo Criminale dominavano, prendendo spesso il sopravvento sulle dinamiche di gruppo, le singole forti individualità, che plasmavano l'ambiente criminale romano. Il Libanese, il Freddo, il Dandi, che di volta in volta marcavano con le loro azioni un ambiente forse non asettico, ma pronto a lasciarsi travolgere.

Gomorra – La serie sembra invece lavorare sui contorni piuttosto che sui primi piani, sulle cornici piuttosto che sui soggetti in prima linea. A rubare la scena spesso non sono i personaggi, ma gli ambienti, le immagini di santi appese alle pareti, i quadri autocelebrativi quasi da nobiltà, le cornici dorate che inquadrano televisori e poster, le piccole chicche nascoste negli angoli delle case o ai bordi delle strade. Sono gli anonimi e inquietanti casermoni grigi di Scampia che, nemmeno a dirlo, erano una delle immagini più memorabili del film di Garrone, ma anche i lussuosi, fino a superare lo sfarzo e sfociare nell'eccesso, arredamenti che si nascondono dietro le grigie mura di alcune parti della città. La camera, sorretta dalla curata fotografia di Paolo Carnera, gioca costantemente sui contrasti tra esterni e interni, restituendoci una realtà appariscente, ma al tempo stesso per pochi sguardi. A questo proposito, la tecnica e l'impegno profusi nella realizzazione hanno quasi del sorprendente: l'invasione di serie americane ed europee, in costante aumento negli ultimi anni, non deve far passare in secondo piano il valore tecnico di un prodotto che si pone molto al di sopra degli standard attuali sulle nostre tv.

Dopo questa lunga premessa, finalmente, la storia. Distaccandosi, almeno in questo momento, dall'approccio corale del film del 2008, Gomorra – La serie sceglie di concentrarsi sulle vicende del clan dei Savastano, ripercorrendo, ma anche rielaborando, il discorso delle faide criminali trattato nell'opera di Saviano. Ecco quindi i traffici illeciti retti dalla mano forte di don Pietro (Fortunato Cerlino), ed eseguiti materialmente dai suoi vari collaboratori, tra i quali spicca senza dubbio il giovane Ciro Di Marzio (Marco D'Amore). La serie prende il via in una realtà già compiuta, senza particolari sussulti, senza sostanziali modifiche, immersa nella stasi dei traffici illeciti e degli appalti truccati. E così praticamente prosegue lungo tutto il primo episodio, che racconta tra le altre cose le violente schermaglie con la famiglia dei Conte, oggetto dell'attentato che apre l'episodio. In questo senso paga la decisione di trasmettere due episodi per volta, dato che proprio nella seconda parte della vicenda gli eventi si smuovono e si pongono le vere basi per la stagione. Senza fare spoiler per chi non abbia ancora visto gli episodi, diciamo che si punterà sul necessario "svezzamento" di Gennaro (Salvatore Esposito), figlio di Pietro, affidato in questo delicato passaggio a Ciro. In un susseguirsi di momenti concitati e violenti, si giungerà quindi ad una situazione di squilibrio e precarietà, che sarà la base per il resto della stagione.

Nelle due ore complessive il ritmo non perde mai il passo e le scene impressionanti e da ricordare sono almeno due (una in un appartamento, una in discoteca). Funziona la ricostruzione degli ambienti e quella, più sottile, dei rituali sommersi che vengono fuori a poco a poco, senza didascalismi e in forme inattese. In tutto questo l'utilizzo di un linguaggio dialettale molto stretto (comunque non incomprensibile, e in ogni caso sono disponibili i sottotitoli), oltre a favorire il senso di realismo, compensa la scelta di appoggiarsi in larga parte su attori emergenti o esordienti, praticamente la stessa scelta che si fece con Romanzo Criminale – La serie. La serie ha una sua poetica e alcuni slanci creativi che la innalzano al di sopra della semplice opera di denuncia – basti pensare alla scena finale nella quale alcuni bambini giocano a fare il palo – ma quello che emerge soprattutto è un progetto concreto e ragionato alla base, la voglia di fare qualcosa che, come il suo predecessore, abbia una narrazione di ampio respiro e che riesca, principalmente, a intrattenere con intelligenza.

Continua a leggere su BadTaste