Gold, la recensione
Gold è quindi un film che potenzialmente potrebbe essere molto più di quello che mostra e che invece, dando per scontato quasi tutto e insistendo sullo sfinimento, perde completamente il senso di ciò che vuole raccontare.
Siamo sulla falsa riga del post-apocalittico alla Bad Batch, in un deserto dalla collocazione indicibile, vicino ai giorni nostri ma non si sa davvero quanto - sentiamo parlare alla radio di bitcoin, sappiamo che c’è una migrazione di massa e che l’acqua è una risorsa più che preziosa. Il resto non è dato saperlo. Gold di Anthony Hayes si presenta così, con coordinate quasi nulle, uno sfondo narrativo illeggibile e un protagonista emaciato (Zac Efron), senza passato e identità, che compie un viaggio in cerca di una terra promessa verso Est (all’opposto del tradizionale Ovest cinematografico, il mondo del West e la culla della nuova civiltà), e che invece porta lui e il suo autista (Hayes stesso) a dover collaborare per portarsi via l’enorme filone d’oro che scoprono lungo la strada.
Hayes si limita infatti ad osservare la sopravvivenza di un uomo anonimo in una natura ostile, contemplando con sguardo disinteressato e poco interessante (con qualche campo lungo e lunghissimo ad alternare la noiosa messa in quadro del personaggio) la sua smania e i suoi progressivi deliri tra paesaggi sempre uguali e dinamiche più che ripetute. In ciò che Hayes ci mostra non c'è in sé un dato interessante: le cose che succedono sono poche, e anche quando qualcosa di "grosso" accade viene risolto in pochi minuti. Tutto il film si affida quindi a una visione che, a sua volta, non trova il modo di comunicare intenzioni e stati d'animo che non siano disperazione, sete e fame.
Gold è quindi un film che potenzialmente potrebbe essere - e dire - molto più di quello che mostra e che invece, dando per scontato quasi tutto e insistendo sullo sfinimento, perde completamente il senso di ciò che vuole raccontare.
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