Godland, la recensione

Inviato a evangelizzare gli islandesi, un prete danese si immerge in un paesaggio ostile con noi, in un film che non ha niente di spirituale

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Godland, in uscita il 6 gennaio in sala

C’è prima il titolo in danese e poi il titolo in islandese all’inizio di Godland (è lo stesso titolo, solo nelle due lingue), è un film di transizione in cui un danese, un prete di fine ‘800, viene mandato ad evangelizzare l’Islanda. Non sa la lingua, non conosce i luoghi, imparerà a conoscere entrambi con difficoltà. È una persona mite, non è certo un prete energico, e finisce in una landa ostile con una guida non proprio amichevole, un modello maschile di certo più duro di lui, fino ad incontrare una piccola comunità alla quale portare la parola di Dio quando ormai lui stesso sembra non esserne più così convinto. Il film è per poco più di metà il suo viaggio in una terra gelida che lo mette alla prova fisicamente e mentalmente (eccezionale il momento in cui, solo, in tenda di notte con una candela chiede pietà a Dio, vuole desistere e sì risponde da sé, cioè fa la voce di Dio e sì dà le risposte spietate!) e per il resto il rapporto con queste persone una volta che ormai è cambiato.

Non è una visione facile né conciliatoria Godland, 2 ore e 22 minuti in cui la parte più importante delle inquadrature sono i paesaggi in 4:3 (per una volta appropriato, perché lo spunto sono delle vere foto scattate da un prete danese spedito in Islanda), paesaggi ripresi senza il minimo abbellimento nello stile di Werner Herzog, ritratti per quello che sono, cercando di lasciar uscire la loro effettiva magnificenza, potenza e impressionante incombenza. Di Herzog però questo mondo naturale non ha la radicale indifferenza e la personalità ingombrante, non ingaggia un vero duello con il protagonista e quindi anche l’idea radicale di uso dei paesaggi ne esce depotenziata. Per questo Godland, la cui visione senza dubbio beneficia del grande schermo e dell'immersione, migliora nettamente quando entrano più umani nell’equazione.

Arrivato finalmente in una comunità in cui stabilirsi, il prete inizia un percorso da Narciso Nero, tutto quel contatto con una natura da cui non si può scappare risveglia la sua parte più umana, fatta di sentimenti positivi e negativi che non può più sopprimere. E che tutto questo avvenga non per un paesaggio lussurioso o rigoglioso, che non sia associato al fiorire della natura ma semmai al gelo della lande islandesi non è male. Purtroppo però questo film che ha l’idea di cinema più giusta è diluito e tagliato da Hlynur Pálmason (islandese) nella maniera meno convincente, e finisce per ingranare davvero dopo circa un’ora e cinquantasette minuti, quando comincia davvero ad interessarsi alle vicende del prete e a fare qualcosa con la sua idea (magnifica) di rapporto con l’ambiente. 

Quasi come fosse uno schiaffo finale la soluzione più bella e avvincente (diversi stacchi in asse sul medesimo paesaggio in momenti dell’anno completamente diversi) porta solo ai titoli di coda invece che al cuore del film.

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