GLOW (seconda stagione): la recensione
La recensione della seconda stagione di GLOW
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Comedy per definizione, drama per scelta, in questa seconda stagione GLOW si emancipa totalmente dal paragone inevitabile con Orange is the New Black. Jenji Kohan tra i produttori, serie al femminile, uno stridente contrasto tra leggerezza e dramma. D'altra parte, proprio dove la serie carceraria, che tornerà a fine luglio su Netflix, riesce a virare bene e spesso sulla "tragicommedia", GLOW è più concentrata sul dramma umano. Dietro le identità assurde delle lottatrici, le pantomime sul ring, i vestiti sgargianti, c'è la volontà palese di fondare lo show sulle donne dietro le maschere, su ciò che vorrebbero essere e sui motivi che le hanno condotte, a diverso livello, a lavorare in quel settore.
Ruth è emblematica. Si tratta di un personaggio idealista, ma mai fino all'ingenuità. Il suo percorso umano è costellato da imperfezioni, ripensamenti, errori e figuracce, ma c'è nonostante tutto la voglia di rimanere fedeli a se stessi e di migliorare. Anche in questo caso, "the show must go on". Non solo per pura necessità economica – si cerca di dare il massimo fino alla fine – ma perché si realizza che raccontare dei personaggi interessanti sul ring e far bene il proprio lavoro significa anche mettere ordine nella propria vita. Sarà così anche per Tammé, che potrebbe vergognarsi di fronte al figlio, o per Arthie e Jolanda, che scoprono un profondo affetto l'una per l'altra. Non ultima, Debbie, personaggio chiave dell'intera stagione.Debbie potrebbe essere la villain, la donna viziata, opportunista e priva di etica. Sarebbe un buon modo per esaltare il contrasto con Ruth. E invece no. Ruth e Debbie sono sempre schierate l'una contro l'altra (perfetta l'intuizione di contrapporle anche come Zoya e Liberty Bell), ma non hanno mai completamente ragione o torto. C'è una sfuriata in ospedale che è forse il momento con la migliore scrittura di tutta la serie, ma anche una particolare storyline che riguarda delle molestie sul lavoro trattata con la giusta precisione e intelligenza. Debbie ha il suo spazio, e non è detto che lo usi per migliorare – come tutte del resto – ma in quei momenti c'è abbastanza cura per permetterci di empatizzare con lei. E tanto basta. Stesso discorso per Sam Sylva, altro personaggio apparentemente odioso, ma sul quale la serie insiste così ostinatamente, fino a farcelo comprendere.