Gloria Bell, la recensione

Il remake americano di Gloria, a cura sempre di Sebastian Lelio è una caduta degli dei in un mondo sognante

Critico e giornalista cinematografico


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La storia è sempre quella, la medesima del film di 7 anni fa con cui Sebastian Lelio si è imposto all’attenzione internazionale, Gloria. Ora si chiama Gloria Bell ma sempre una donna avanti con gli anni è, rimasta sola e in cerca ancora di qualcosa. Lo cerca nelle canzoni, lo cerca nelle sale da ballo, lo cerca negli uomini che incontra e in particolare in uno, che pare capirla ma troppo spesso sparisce e troppo è preso da un’altra vita. Gloria gira in macchina, canta canzoni pop, ha grossi occhiali e grandi sogni romantici per sé che, lo capiamo subito, è molto difficile realizzare a quell’età e con quell’atteggiamento.

Sebastian Lelio dopo aver già fatto partire la sua carriera internazionale con Disobedience, rebootta il suo film più noto con una produzione americana, Julianne Moore e John Turturro. Ogni remake, specie se ad opera del medesimo autore dell’originale, è un’esplorazione sul tempo (unica eccezione il remake “di protesta” di Funny Games rifatto identico all’originale per distruggerne ogni valore). Il tempo passato tra l’originale e il nuovo, il tempo dilatato che sta tra la vita in patria e il lavoro nella grande industria. Forse anche per questo Gloria Bell ha una qualità sognante sconosciuta all’originale.

Una fotografia che va a caccia di tramonti e controluce, che cerca quel momento in cui la posizione del sole conferisce una luce giallastra al mondo, unita ad una colonna sonora letteralmente incredibile, sospesa e straniante che per vie impossibili da prevedere calza bene il tono stralunato di un’avventura sentimentale fuori tempo massimo. Sembrano pezzi mai usati dello score di Blade Runner riarrangiati da Jonny Greenwood per un film di Paul Thomas Anderson e poi ancora tagliati e rimontati per questo. Non è la musica che conosciamo, né quella che prevediamo, ma quella che dà alle peripezie di Gloria un valore quasi metafisico, ampio e vuoto come gli spazi americani.

Il meccanismo al cuore del film è sempre quello: osservare le reazioni di Gloria. La seguiamo e giriamo con lei per vedere cosa le capiti ma soprattutto cosa capiti a chi le sta intorno e come lei reagisca. Per Lelio l’inferno è sempre la società, sia nel senso di massa sia intesa come il prossimo. Gli altri sono la croce degli esseri umani, il loro giudizio la maniera in cui la nostra felicità e stabilità dipenda da loro e quanto siano inaffidabili. Il fatto che qui siano tutti più belli del film originale conferisce a tutto ciò un senso più amaro, una caduta degli dei invecchiati.
Gloria continua a finire in una specie di vita da 15enne, appresso ad uomini occasionali che la lasciano in situazioni limite da cui qualcuno la deve recuperare, ma tutto è ancora più ingiusto e squallido. Sembra che essere Gloria in America, esserlo con il volto di Julianne Moore, sia molto peggio che esserlo in Cile. Tuttavia, benché non possa essere la stessa cosa, anche per lei imperterrita alla fine risuonerà Gloria di Umberto Tozzi, in un’altra versione ancora, una ovviamente americana.

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