Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, la recensione
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday propone un messaggio troppo diretto e un intreccio troppo convenzionale. La recensione
Lee Daniels non è un regista che va per il sottile. Se film come Precious e The Butler non lo avevano reso abbastanza chiaro, a togliere ogni dubbio è Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, biopic sulla celebre cantante statunitense. Si inizia con una didascalia che ci informa di come nel 1937 era stato proposto un emendamento per vietare il linciaggio contro gli afroamericani, ma non era stato approvato. Si chiude con un’altra sul fatto che lo stesso sia accaduto nel febbraio 2020 e che dunque tutt’oggi una legge contro il linciaggio non sia ancora in vigore negli Stati Uniti. Quello che vediamo nel mezzo non è altro che un manifesto di denuncia questa situazione, a discapito del racconto e del personaggio principale.
C’è dunque un tema molto forte alle radici del racconto (la caparbia e feroce persecuzione degli afroamericani) cui il regista piega la parabola della protagonista, veicolo per renderli manifesti. Holiday (interpretata da Andra Day, cantante al debutto come attrice e nominata come Miglior Attrice Protagonista agli Oscar 2021) è paladina dei diritti degli afroamericani, non rinuncia a proporre Strange Fruit ai concerti nonostante i mille impedimenti, la sua precoce morte lascia in eredità un brano tramandato alle successive generazioni come simbolo del linciaggio stesso. Gli angoli spigosi della sua figura vengono via via smussati per arrivare alla celebrazione finale, le sue dichiarazioni sono spesso cariche di istanze e di sentenze.
Allo stesso modo, l’intreccio del film, basandosi fedelmente sulla biografia di Holiday, non prevede uno sviluppo avvincente, bensì fa susseguire lunghe scene di varie esibizioni della protagonista (in questo senso, notevole la performance di Andra Day) alle sue vicende sentimentali e private. Ai margini, scorgiamo alcuni spunti interessanti: il fatto che lei, come la madre dell’agente Fletcher, ricorra a domestici afroamericani, o che spesso erano gli stessi afroamericani a chiederle di smettere di cantare Strange Fruit per salvarsi la pelle. Tutto questo però resta ai margini, perché a Daniels non interessa mettere in discussione la propria comunità, proporre un punto di vista inedito, ma solo portare avanti il proprio discorso. Vorrebbe portare nuova luce su eventi e personaggi del suo Paese, come la cattiva condotta dell’FBI e i legami diretti col presidente Kennedy, eppure non sono certo temi nuovi né sono convincenti i modi così diretti in cui vengono pronunciati.
Per mettersi al servizio della storia, il regista propone qui uno stile molto controllato, che si caratterizza solamente per una fotografia giocata su contrasti di colore per richiamare la condizione di allucinazione in cui spesso si trova la protagonista, che però non è mai veramente funzionale alla narrazione. Siamo allora più dalle parti di The Butler, in cui nuovamente la Storia dei diritti degli afroamericani schiaccia la storia del maggiordomo alla Casa Bianca. In Gli Stati Uniti contro Billie Holiday solo in una breve passaggio questo rapporto cambia, avvicinandosi di più a Precious. Con un suggestivo piano sequenza, siamo trasportati nell’infanzia della protagonista, scoprendo come le questioni al centro del film (l’abuso di droga e il linciaggio) riguardino direttamente il suo passato e la sua famiglia. Lì, per un momento, spostandosi dal versante pubblico a quello privato, il film dà finalmente spessore al personaggio, lo mette al centro, raccontando per la prima volta la sua difficile esperienza con una certa crudezza. Ma è troppo poco.