Gli occhi di Tammy Faye, la recensione | Roma 16

Riletti alla luce del presente i fatti di Gli occhi di Tammy Faye sono così convenzionali da non riuscire a convincere di non essere una forzatura

Critico e giornalista cinematografico


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Gli occhi di Tammy Faye, la recensione | Roma 16

È proprio vero che qualsiasi lettura e racconto del passato è sempre pensato in funzione di un commento sul presente. La storia dei predicatori televisivi Tammy Faye e Jim Bakker per come la mette in scena Michael Showalter (basandosi sul documentario a loro dedicato diretto da Randy Barbato e Fenton Bailey narrato da RuPaul) è un delicato lavoro di riorganizzazione della realtà a uso e consumo di una visione politica e umana molto chiara. Riportare la complessità di intrecci, responsabilità e intenzioni nella parabola umana di qualche decennio nella vita di una coppia famosissima non è proprio tra gli obiettivi del film, che invece addossa molto schematicamente ogni colpa sulle spalle di Jim Bakker e assolve in pieno Tammy Faye, vittima di una società fallocentrica, donna di buon cuore e soprattutto grande ribelle.

Prima sminuita in casa, poi marginalizzata all’università per predicatori, poi messa in un angolo nel lavoro in tv con il marito, la Tammy Faye di questo film è il modello di donna che nonostante sappia di vivere in tempi in cui da lei ci si aspetta che stia in un angolo, lo stesso impone se stessa e quel che sa fare usando la propria fama e immagine per combattere per le cause che le stanno a cuore. Tutto mentre il marito si lascia corrompere dall’industria, dal successo e dal denaro. Showalter non sembra saper immaginare altro conflitto per i propri personaggi che non sia quello con la società, e quindi li deve ritrarre come ribelli, outsider moderni di un mondo antico, anche se poi i coniugi Bakker per indole, lavoro e credo erano l’opposto di tutto ciò.

Con la consueta e prevedibile alternanza di alti e bassi da biopic classico, Gli occhi di Tammy Faye si presenta come la versione “predicatori” del modello base del film biografico (incluso il trucco invecchiante che non è chiaro perché riguarda solo i protagonisti, gli altri non invecchiano ma rimangono sempre uguali). Anche l’inevitabile tappa dell’abuso di droga viene inclusa utilizzando i medicinali come fossero stupefacenti e pure la recitazione è quella più prevedibile, soffocata invece che aiutata dal trucco. Di contro viene invece trascurato come le ambizioni dei due siano le medesime che il cinema hollywoodiano ha sempre raccontato come parte dello spirito americano. Hanno ambizione, vogliono avere successo, vogliono fare soldi e vogliono farlo tramite il duro lavoro. Solo che nella loro visione di mondo non ammettono questa sete ma sostengono che sia “il volere di Dio”. Ad un certo punto ci sarà una diretta equivalenza tra l’amore di Dio e il denaro. Che è una lettura eccezionale di una parte dello spirito americano che tuttavia il film trascura sempre di più.

Gli preferisce gli ammiccamenti all’omosessualità così velati da risultare ridicoli, e gli preferisce il discorso degli occhi di Tammy Faye, non solo già incluso nel titolo ma subito sbattutto in faccia all’inizio, quando la vediamo dire che quel trucco molto carico lei ce l’ha tatuato (sic!) e quindi non si può levare perché “Questo è ciò che sono”.
Non è difficile comprendere che l’intento è fare di Tammy Faye una delle molte bandiere di un femminismo combattivo ante-litteram (rispetto alla forti rivendicazioni attuali), proprio a partire dai tratti più eccessivamente femminili, ma onestamente l’impresa di trasformare una predicatrice cristiana in un monumento all’indipendenza femminile richiedeva un impegno superiore.

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