Gli infedeli, la recensione
Ancorato timidamente al format francese originario, Gli infedeli evita di prendere posizioni forti sulla società italiana contemporanea
Il concept di base era comunque una scommessa a rischio medio/basso. Gli infedeli è infatti il remake dell’omonimo film francese del 2012, Les infidèles, un successo al botteghino che aveva come elemento attrazionale la presenza di Jean Dujardin e Gilles Lellouche, attori principali ma anche co-registi, co-sceneggiatori e, nel caso di Dujardin, produttore. Costruito anch’esso tramite la successione di diversi episodi accomunati dal tema specifico del tradimento, l’adattamento italiano approdato su Netflix cambia qualche variabile ma non la confezione esterna, che nel nostro caso reca il nome di Valerio Mastandrea e Riccardo Scamarcio e la regia per tutti gli episodi di Stefano Mordini.
Dove sta allora la logica di adattamento culturale del format? Facendo un paragone ancora con l’originale, se non si rivela nel prodotto in sé si rivela nelle sue carenze: ovvero nell’avere eliminato l’episodio gay, nel non avere l’autoironia tutta francese nel trattare il tema del sesso e delle relazioni (un episodio come quello della terapia di uomini malati di sesso che si fanno psicanalizzare da una donna sembra davvero impensabile per il contesto italiano), nel non essere tanto commedia ma più un dramma con alcuni momenti comici. Sia chiaro: gli episodi tutti italiani come quello in cui Mastandrea usa la scusa della partita o quello in cui Scamarcio fa il sottile manipolatore sono davvero ben scritti, ma un paio di esempi non possono bastare a scusare la mancanza di un progetto che sia coeso nel suo complesso.