Gli immortali, la recensione

E chiaro che Gli immortali è una maniera per elaborare un lutto, ma purtroppo è anche tarato su standard artificiosi ben poco cinematografici

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Gli immortali, il film di Anna Ritte Ciccone in sala dal 20 giugno.

C’è una precisa differenza tra raccontare l’agonia e far vivere l’agonia. La prima cosa è quella che generalmente tendono a fare i film drammatici, cioè cercare di rendere il tormento dei cari, la fatica delle cure e il lento procedere delle agonie mortali. La seconda cosa è un altro campo di gioco, non ha a che vedere con cosa si racconta, ma con cosa si cerca di far provare al pubblico; è ciò che fanno i torture porn, è quello che fa Michael Haneke ai suoi spettatori. Gli immortali continuamente sembra confondere la prima con la seconda, cioè vuole raccontare l’agonia mortale di un padre che ha reincontrato la figlia dopo molto tempo ma ha un male terminale, e più che raccontarlo finisce per infliggerlo agli spettatori. Si intuisce che forse dovremmo immedesimarci con il personaggio della figlia, ma finiamo nell’agonia del lento morire per troppo tempo e senza un vero fine (come avviene nei film di Haneke invece).

Tutto Gli immortali è diviso in due parti: la prima, più nPer tutto il arrativa, in cui la figlia protagonista, adulta e al lavoro nel mondo teatrale, incontra di nuovo il padre, assente per buona parte della vita di lei e ora ritornato; la seconda, in cui la malattia si presenta e comincia il rapido decorso. Dunque, prima la vita (o meglio il racconto della vitalità di questo padre) e poi la morte, inserite nel mondo teatrale con un fare che anch'esso è inevitabilmente teatrale. Anche i ricordi sono messi in scena con un fare teatrale, e anche la recitazione lo è. È un problema, ovviamente, perché il cinema non è il teatro, e quel tipo di espressività non funziona mai nella stessa maniera, specie la sua artificiosità creano uno straniamento controproducente; ma per la stessa identica ragione (l’artificiosità), il lavoro fatto sulle scenografie è invece convincente.

Lungo il film si scivola da un’ambientazione naturalistica a una espressionista, quella dell’ospedale del finale, teatralmente regno dell’assurdo, della voce alzata e del grottesco, in cui le pareti, gli arredi e anche i costumi sono sopra le righe e per terra c'è la sabbia dei ricordi e della memoria. Certo, Anne Riitta Ciccone forse indugia troppo in questa forma di elaborazione di una morte attraverso la sua sublimazione nell’arte, sembra non andare dritta al punto ma preferire la divagazione. Gli immortali è pieno di discorsi, conversazioni, massime e confronti su grandi temi per suggerire la distanza sempre più corta tra un padre e una figlia. È il suo modo di procedere e, come detto, in certi punti trova anche il gradiente di astrazione giusto. Ma per troppa parte è compiaciuto, molto compassato senza avere i mezzi per creare comunque interesse, e alla fine lascia il sapore di un’operazione fatta molto più per se stessi che per entrare in contatto con un pubblico.

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