Glass, la recensione

Gestito come nessun cinecomic, tarato su Unbreakable ma anche distrutto dai dialoghi, Glass rimane uno dei film più originali sul supereroismo

Critico e giornalista cinematografico


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Nonostante Glass sia l’apoteosi dell’universo condiviso di “supereroi” creati da M. Night Shyamalan, la distanza tra questo film e un cinecomic non potrebbe essere più grande. Unbreakable era un thriller con twist finale, un processo di scoperta di un destino, una vera natura e una missione attraverso la quale dirsi realizzati. Split era un thriller puro con delle ragazze in trappola che cercano di scappare da un mostro psicopatico. Questo è un film sui supereroi, non di supereroi.

La differenza sta nel fatto che noi non siamo con i tre protagonisti, non viviamo tutto tramite loro o tramite il personaggio stavolta più centrale (quello del titolo). Non c’è insomma l’ebbrezza del potere, e la goduria dell’immedesimazione, non c’è cruccio per il dovere o dubbio su cosa vada fatto. C’è semmai uno sguardo esterno: sono o non sono una forma realistica di supereroi? Che fanno? E che senso ha tutto questo per il resto della popolazione?

Stavolta David Dunn, Kevin Wendell Crumb e Elijah Price vengono catturati e rinchiusi in un manicomio, qualcuno li ha notati, studiati e ha capito che credono di essere supereroi. Se in Unbreakable l’esperto di fumetti dalle ossa fragili Price faceva di tutto per convincere la guardia dello stadio Dunn di essere una versione credibile di un supereroe, l’origine di molte storie a fumetti, qui qualcuno fa di tutto per spiegargli che non lo sono, che se ne sono autoconvinti, che sono così inebriati dall’idea stessa da non capire che ogni facoltà che pare un potere ha una spiegazione. Al centro dunque c’è sempre l’incredulità, come nel primo film, la tendenza a non credere e non sognare, non guardare in alto come nei film di Steven Spielberg. Al centro di Glass insomma non c’è la scoperta di un potere e un dovere, a essere negoziato è il nostro desiderio di credere che esista una realtà migliore.

La differenza rispetto ad Unbreakable è che sono passati 17 anni e se di nuovo la vita dei personaggi ricalca esplicitamente quella dei personaggi da fumetti, con i medesimi passaggi chiave, stavolta sembra che ciò di cui tutti parlano non siano i fumetti ma i cinefumetti. Glass rende insomma molto chiaro ed esplicito il suo livello di lettura “industry”, quello che parla del mondo dei fumetti al cinema, di come si producano e creino quelle storie, seguendo quali regole e lungo quali direttrici. È quindi facile rimanere delusi se ci si aspetta che il film cambi e diventi davvero un cinecomic, perché Glass rimane invece fedelissimo a Unbreakable. I suoi problemi sono semmai altrove.

Shyamalan, lo sa chiunque abbia visto i suoi migliori film, ha davvero un altro passo rispetto alla media dei registi di blockbuster hollywoodiani. Ha un’altra concezione delle idee e degli spazi, perché immagina le scene con in mente inquadrature che possano raccontare una storia. Ad esempio là dove tutti imprigionerebbero i personaggi nello stesso palazzo lui li mette proprio con porte una di fronte all’altra così che per caso mentre sono aperte per un secondo possano vedersi e creare l’immagine migliore del film. E questo fa la differenza.

Perché tutto nel cinema di Shyamalan passa per sublimi idee di montaggio interno, i suoi sono film che parlano con le immagini ma fanno a cazzotti con le parole. Purtroppo lo si vede anche qui, in questo superhero movie a basso budget (la Blumhouse, regina del risparmio, ha segnato l’asticella dei costi a solo 20 milioni di dollari), in cui come troppo spesso è accaduto a Shyamalan sono i dialoghi a penalizzarlo, specie nello showdown finale. The Visit e Split sembravano aver curato questo problema e invece ci risiamo: tanta ricerca e tanto impegno c’è nelle soluzioni visive, tanta trascuratezza c’è in quelle narrative.

Forse allora proprio per questa idiosincrasia con le parole tutta la prima ora, in cui Samuel L. Jackson non parla mai, David Dunn come suo solito ha la stolida espressione da sempliciotto (che era la caratteristica più commovente di Unbreakable e qui è purtroppo lasciata in secondo piano) e Kevin Wendell Crumb parla tantissimo ma di fatto non dice niente, è la parte migliore del film, quella in cui le soluzioni visive raccontano una storia clamorosa dal passo controllato, tutta tensione verso la scoperta di qualcosa di nuovo. Poi arriveranno le spiegazioni a parole, arriveranno complotti e piani orditi a storcere un film che alla fine, se non altro e al netto dei suoi molti difetti, rimane il più originale del suo sottogenere e il più significativo.

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