Glass, la recensione
Gestito come nessun cinecomic, tarato su Unbreakable ma anche distrutto dai dialoghi, Glass rimane uno dei film più originali sul supereroismo
La differenza sta nel fatto che noi non siamo con i tre protagonisti, non viviamo tutto tramite loro o tramite il personaggio stavolta più centrale (quello del titolo). Non c’è insomma l’ebbrezza del potere, e la goduria dell’immedesimazione, non c’è cruccio per il dovere o dubbio su cosa vada fatto. C’è semmai uno sguardo esterno: sono o non sono una forma realistica di supereroi? Che fanno? E che senso ha tutto questo per il resto della popolazione?
La differenza rispetto ad Unbreakable è che sono passati 17 anni e se di nuovo la vita dei personaggi ricalca esplicitamente quella dei personaggi da fumetti, con i medesimi passaggi chiave, stavolta sembra che ciò di cui tutti parlano non siano i fumetti ma i cinefumetti. Glass rende insomma molto chiaro ed esplicito il suo livello di lettura “industry”, quello che parla del mondo dei fumetti al cinema, di come si producano e creino quelle storie, seguendo quali regole e lungo quali direttrici. È quindi facile rimanere delusi se ci si aspetta che il film cambi e diventi davvero un cinecomic, perché Glass rimane invece fedelissimo a Unbreakable. I suoi problemi sono semmai altrove.
Perché tutto nel cinema di Shyamalan passa per sublimi idee di montaggio interno, i suoi sono film che parlano con le immagini ma fanno a cazzotti con le parole. Purtroppo lo si vede anche qui, in questo superhero movie a basso budget (la Blumhouse, regina del risparmio, ha segnato l’asticella dei costi a solo 20 milioni di dollari), in cui come troppo spesso è accaduto a Shyamalan sono i dialoghi a penalizzarlo, specie nello showdown finale. The Visit e Split sembravano aver curato questo problema e invece ci risiamo: tanta ricerca e tanto impegno c’è nelle soluzioni visive, tanta trascuratezza c’è in quelle narrative.
Forse allora proprio per questa idiosincrasia con le parole tutta la prima ora, in cui Samuel L. Jackson non parla mai, David Dunn come suo solito ha la stolida espressione da sempliciotto (che era la caratteristica più commovente di Unbreakable e qui è purtroppo lasciata in secondo piano) e Kevin Wendell Crumb parla tantissimo ma di fatto non dice niente, è la parte migliore del film, quella in cui le soluzioni visive raccontano una storia clamorosa dal passo controllato, tutta tensione verso la scoperta di qualcosa di nuovo. Poi arriveranno le spiegazioni a parole, arriveranno complotti e piani orditi a storcere un film che alla fine, se non altro e al netto dei suoi molti difetti, rimane il più originale del suo sottogenere e il più significativo.