Glamorous (prima stagione), la recensione

Nel tentativo di risultare fresca, Glamorous si appiattisce su stereotipi, cliché e umorismo stantio, senza divertire né far riflettere

Condividi

La nostra recensione della priama stagione di Glamorous, la serie con Kim Cattrall e Miss Benny disponibile su Netflix

"Non tutto è glitter," si trova a dire Madolyn Addison (Kim Cattrall) nel corso della prima stagione di Glamorous. Un monito che, paradossalmente, anche il creatore della serie Jordon Nardino e i vari sceneggiatori avrebbero dovuto tenere a mente nello scrivere la parabola ascendente del giovane protagonista Marco (Miss Benny). Uno show che abbonda, pullula, tracima glitter; uno show che, ahinoi, ha poco altro da offrire al suo pubblico. Ma cos'è, in effetti, Glamorous?

Il diavolo non usa Glamorous

La premessa è vecchia ma efficace: Marco, ventiduenne queer, lavora come commesso in un grande centro commerciale, coltivando il sogno (udite udite) di diventare influencer. Le sue dirette su TikTok sono affollate quanto una spiaggia in inverno, e lo stipendio è poco più che un contentino non sufficiente a placare le ansie della sua mamma avvocato (Diana Maria Riva). Il deus ex machina è, però, dietro l'angolo: a salvare il nostro eroe dalla prospettiva grigia di un lavoro d'ufficio (che orrore!) interviene la visita, al centro commerciale, della celeberrima magnate dell'industria cosmetica Madolyn Addison.

La donna, inspiegabilmente alla ricerca di personale per un'azienda che sembra sull'orlo del collasso finanziario, decide - a seguito di un discorso ispirato di Marco che sembra un patchwork di frasi dei Baci Perugina - di assumere il nostro protagonista alla Glamorous, la propria (segretamente traballante) casa di prodotti cosmetici. Per Marco è un sogno che si realizza, per noi un copione già scritto che, sin dalle prime battute, ricorda tremendamente Il diavolo veste Prada o Ugly Betty, qui adeguatamente corretta in Fabolous Marco.

Lavoro, amore

Messa così, Glamorous sembrerebbe una potenziale commedia sagace sul posto di lavoro; e invece no. In ogni singolo passaggio che riguardi vendite o strategie di marketing, la serie di Nardino mette a dura prova la nostra sospensione dell'incredulità. Possiamo davvero berci che, nel 2023, un'azienda in crisi rintracci nel Pride l'idea pubblicitaria che dovrebbe salvare il suo destino? Improvvisando, per di più, una campagna in pieno giugno, come se tutt'intorno il mondo dei brand non si fosse già colorato d'arcobaleni?

D'accordo, d'accordo; forse siamo noi ad aver frainteso le intenzioni di Glamorous. Forse, questa serie vorrebbe essere una commedia romantica. Peccato che neanche così la storia funzioni; seguire Marco nelle sue disavventure amorose con il palestratissimo Parker (Graham Parkhurst) o con il timido collega Ben (Michael Hsu Rosen) non ci offre occasione per empatizzare con alcuna delle parti coinvolte. La goffaggine di Ben stanca dopo la ripetizione - praticamente identica - degli stessi imbarazzi nel corso di dieci episodi. La presenza di Parker poco o nulla aggiunge in termini di drammaticità, e la sua supposta funzione di oggetto del desiderio di Marco non dà alcuno spunto di approfondimento per il carattere del protagonista.

Identità confusa

Se a tutto questo andiamo ad aggiungere una vena comica di dubbio gusto, improntata a battute del calibro di "hai fallito quanto un singolo di Katy Perry", il quadro generale di Glamorous risulta piuttosto desolante. Inoltre, per essere una serie con un protagonista di appena ventidue anni, duole constatare un proliferare di riferimenti culturali che, alla meglio, sembrano provenire da un boomer che gioca a fare il millennial. Se l'intento era di raccontare qualcosa della Gen Z, il dardo ci sembra arrivato quanto mai lontano dal bersaglio.

Gli sparuti barlumi di reale originalità affogano nella palude di una scrittura noiosa e involuta. Per una serie il cui perno sembra essere l'affermazione di sé, Glamorous manifesta una drammatica confusione sulla propria reale identità. Le buone intenzioni alla base del progetto sono evidenti, ma questo aereo stenta a decollare, gravato irrimediabilmente dal peso di troppe derivazioni messe insieme senza originalità o reale senso critico.

Un vivido palco

A rischiarare un orizzonte plumbeo intervengono le ottime performance di tutto il cast di comprimari; Ayesha Harris e Michael Hsu Rosen sono perfetti nei panni di Britt e Ben, designer che condividono una drammatica tendenza a non saper gestire le cotte. Stesso vale per Diana Maria Riva che, nel ruolo della madre di Marco, è un efficace contraltare agli eccessi della Glamorous, un baluardo di solido realismo e confortante calore umano. Plauso inoltre a Zane Phillips; nella parte di Chad, figlio di Madolyn nonché responsabile vendite dell'azienda, Phillips conferisce al personaggio una ricchezza di sfaccettature che spesso trascende la superficialità della scrittura.

Non possiamo non parlare, a questo punto, della prova di Kim Cattrall. Sebbene la sua statura d'attrice trovi qui terreno fertile, Glamorous inciampa in corrispondenza di un'eccessiva adorazione per il personaggio Madolyn. Avremmo gradito vederla, di tanto in tanto, ritratta in una luce leggermente meno radiosa senza per forza ricadere nello stereotipo del capo terribile. E, a proposito di luce, rimane il dubbio sul perché il regista Todd Strauss-Schulson abbia scelto di tramutare gli uffici di un'azienda di cosmetici nel ponte di comando dell'Enterprise secondo J.J. Abrams, costellandoli di lens flare senza senso. "Non tutto è glitter," ricordiamo!

Non protagonista

Ciò che rivela più di qualunque altra cosa quanto Glamorous sia un'occasione sprecata è proprio il suo protagonista. Certo, la libertà con cui Marco esprime sé stesso è galvanizzante, fresca e coraggiosa. Il problema, però, è che quel sé stesso è noiosissimo. Monocorde, potremmo dire. Non c'è spessore nel tratteggio di questo protagonista che è memorabile solo nelle intenzioni. La sceneggiatura riduce Marco a una macchietta smorfiosa che avrebbe potuto figurare come retrograda linea comica di qualche film di quindici anni fa, con qualche impacciata, graziosa ragazza etero al centro del racconto.

Marco, dal canto suo, sembra un elenco di slogan da social. Può funzionare come punto di inizio, partendo dall'aspirante influencer per arrivare al nucleo del personaggio; invece, Glamorous prosegue per dieci episodi su questa falsariga. La leggerezza è un pregio, ma la serie dimostra una clamorosa mancanza di attenzione nei confronti della sua psicologia. Non basta prendere un personaggio che tradizione relegherebbe a ruolo di spalla e affibbiargli il ruolo di protagonista della storia; occorre anche scriverlo come un protagonista.

Trucco colato

L'impressione che si ha, guardando Glamorous, è che gli autori abbiano fatto di tutto per ottenere un patentino di inclusività, senza preoccuparsi di creare un collante emotivo tra spettatore e spettacolo. Un risultato mortificante non solo per la comunità arcobaleno, ma per chiunque in generale pretenda, dai prodotti che guarda, una minima solidità tematica e narrativa. Giorno verrà in cui non dovremo più confrontarci con rappresentazioni ghettizzanti e piatte di protagonisti appartenenti allo spettro queer. Non sappiamo se sia questo il giorno, ma sicuramente Glamorous non ne è il manifesto.

Alla luce del vessillo più volte sbandierato nel corso della stagione, l'invito a Glamorous per un eventuale prosieguo della sua storia è a riflettere maggiormente su sé stessa e su ciò che vorrebbe raccontare; la non conformità a un singolo genere può essere una fonte di arricchimento, ma quel che sembra aver cagionato in questi dieci episodi è solo una spiazzante, blanda confusione. Non basta il glitter per aggiungere tridimensionalità; occorre, ce lo insegna il make-up, un lavoro capillare sulla base prima di procedere a illuminarla con qualsivoglia lustrino.

Continua a leggere su BadTaste