Giurato Numero 2, la recensione: Eastwood firma un dramma processuale intenso e spiazzante

A 94 anni Clint Eastwood dirige un magistrale dramma morale ambientato in un Georgia di provinci

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Ci troviamo in una cittadina della Georgia dove tutti sembrano conoscersi, è facile che i locali frequentino lo stesso pub la sera come nella terza stagione di Twin Peaks mentre il nostro protagonista è un giornalista freelance ex alcolizzato di nome Justin Kemp (Nicholas Hoult). Gli verrà chiesto di fare il giurato in un processo apparentemente semplicissimo in cui un rinomato spacciatore è imputato di aver ucciso la fidanzata fracassandole la testa e poi gettandola giù da un ponte.

Al quarantaduesimo film Eastwood non cerca il giallo ma il dramma noir. Affidandosi a un attore gentile cui è facile affezionarsi come Hoult, ci dà tutte le informazioni già al minuto 20 (la pellicola ne dura 114) e poi ci chiede, scena dopo scena, di prendere una posizione morale su ogni singolo aspetto della vicenda. Si dipana così davanti ai nostri occhi un film processuale sempre più complesso e moralmente sfidante. Conosceremo procuratrici ambiziose (mai dimenticare che negli USA i pubblici ministeri partecipano a vere e proprie elezioni per scalare la magistratura), avvocati trasandati e una giuria che più passano i minuti, più diventa caotica e contraddittoria. Justin Kemp la manipola o la subisce?

Gran cast mix di sconosciuti e affermati, tra cui spiccano Toni Collette (il pubblico ministero pragmatico), J.K. Simmons (ex poliziotto in pensione) e Zoey Deutch (la moglie incinta di Justin). Eastwood a 94 anni sa benissimo che “less is more” per cui gira in sottrazione come già ha fatto nei suoi film più belli degli ultimi dieci anni come Sully (2016) e Richard Jewell (2019). In quel caso evocava un clima kafkiano altamente paranoico che metteva a repentaglio la serenità psicologica dei suoi protagonisti, da eroi a possibili colpevoli nel giro di due secondi. Con questo suo ultimo (definitivamente?) film ci sembra che costruisca un dilemma morale degno di Fëdor Dostoevskij e al cinema di Krzysztof Kieślowski. Fino all'ultima inquadratura non sai letteralmente come potrebbe andare a fnire.

Se è il canto del cigno, il maestro chiude con grande classe.

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