Giulia, la recensione
La mitologia di Roma d'estate prevede persone irrisolte che incontrano altri come loro, in spazi svuotati in cui rivedono il loro vuoto interiore, così è Giulia
Il cinema di peregrinazione estiva è un genere a sé, e tra i suoi luoghi comuni c’è il fatto che si svolga a Roma. Tra le molte mitologie che ha incollate a sé, Roma ha anche quella dell’estate in città, appiccicosa, teatro di esistenze alla ricerca di qualcosa che non trovano, sia effettivamente (la città è sempre vuota come sì sentono vuoti loro, vuota di cose da fare, vuota di gente, vuota di quello che anima una città: le possibilità) sia allegoricamente. Questa volta vagare per Roma e dintorni d’estate serve a raccontare Giulia, ragazza che sembra non riuscire a tenere nulla in mano, precaria in tutto, distaccata da ogni cosa, insofferente ai legami ma poi paradossalmente bisognosa di altre persone di continuo per sopravvivere o anche solo per dormire. Tutto sta per crollare, costantemente, ma poi non avviene.
Certo Giulia sembra ostentare la sua forma da cinema indipendente all’italiana anche se forse quello non è lo stile di messa in scena che calza meglio di tutti la sua storia e le sue intenzioni; senza contare che chiude tutto con un ritorno al mare in stile I 400 colpi che tuttavia non ha la forza che potrebbe avere, un po’ perché è la seconda volta che ci finisce (anche se nel finale la protagonista fa qualcosa che non aveva fatto prima) e un po’ perché, di nuovo, è stato chiaro lungo il film che più che Giulia il punto è il mondo intorno a lei.