Girls: la triste voce della nostra generazione (recensione)

La recensione della seconda parte di stagione dello show di Lena Dunham: tra stasi e mediocrità...

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Girls è un corpo sgraziato e senza freni, quello di Lena Dunham, perfettamente consapevole di sé, fastidioso e odioso all'inverosimile ma dotato di grandissima coerenza. È il magnetismo della mediocrità, del riflettere sull'imperfezione, sulle quotidiane dimostrazioni di quanto spesso siamo, saremo e siamo stati falsi, manipolatori e deboli. Chi è Hannah? Hannah è tante cose, è tante definizioni, è un archetipo ambulante che la Dunham si diverte a spogliare, a far sbagliare e a farci odiare tantissimo. Dopo un primo approccio a questa seconda stagione altri tre episodi sono andati, ci avviciniamo alla fine e ci accorgiamo di non aver fatto nemmeno un passo rispetto all'inizio.

L'avevamo già scritto: a condizionare tutto c'è una terribile e inquietante stasi, un rimanere intrappolati sempre nello stesso esatto punto. Che in questo caso significa innanzitutto non riuscire a fare un altro passo nella definizione della propria vita. In "It's a shame about Ray" ad esempio Hannah sente il bisogno di celebrare con una cena – gestita tra le altre cose malissimo – la pubblicazione su jazzhate.com di un suo pezzo mentre in "Boys" con un atteggiamento a metà strada tra il superficiale e l'arrogante si cimenta con la scrittura di un e-book. Scandire le fasi di questo tentativo di Hannah e saper leggere tra le righe di questa luce gettata su una breve esperienza di vita, come la Dunham riesce sempre bene a fare, significa avere l'ennesima controprova di ciò che la sua protagonista significhi per lei. Riepilogando velocemente: con una falsa modestia che lascia il campo alla presunzione nel giro di due battute, Hannah accetta l'incarico di scrivere un e-book. In un mese, il che già dovrebbe dire molto. Di tutti gli spunti che la puntata ci lancia vale la pena raccogliere soprattutto quello della scena in cui la ragazza al pc scrive una prima frase, la cancella, e svolta puntualmente su internet alla ricerca dei "12 frutti che ci fanno ingrassare".

Eccola "la voce della nostra generazione". Il problema è che, dal punto di vista di Lena Dunham, Hannah Horvath potrebbe effettivamente esserlo, incarnando lo stereotipo, estremizzato ma nemmeno troppo, di un certo modo di porsi molto diffuso. A voler dare una lettura semplicemente superficiale e immediata, Girls è la messa in scena del nulla. La stasi di cui sopra è più del semplice non riuscire a trovare un obiettivo, è qualcosa di più profondo e, a ben pensarci, angosciante. È l'assoluta, almeno fino ad ora, impossibilità di riuscire a migliorarsi, di imparare dai propri errori, è il grande specchio di una generazione che si frantuma. Hannah ne rappresenta il pezzo più grande, ma non è l'unico. Altri frammenti più piccoli, ma molto importanti per ricostruire tutto, sono Marnie, Shoshanna e Jessa.

Marnie è la necessaria controparte di Hannah, ne rappresenta il lato più pacato, meno estremo, più consapevole (arriva ad ammettere di non riuscire a trovare un obiettivo), ma ne condivide intimamente tutti i difetti. Shoshanna è l'unico personaggio della serie al quale si potrebbe seriamente pensare di cominciare a voler bene, con la sua ingenuità che le ha permesso di creare un naturale scudo contro la falsità e con una pacatezza che nasconde una grande forza: lei è l'unica che nel "gioco della vita" potrebbe effettivamente farcela. Jessa continua ad incarnare – e in "It's a shame about Ray" questo viene detto esplicitamente – l'anima hipster della serie. Anche qui comunque c'è il tocco ormai tipico della Dunham, che non si limita mai a lasciare gli spettatori soli insieme ai suoi personaggi: è invece sempre presente, pronta a farci notare come quello a cui stiamo assistendo non è l'elogio di queste figure ma la loro critica. Il matrimonio di Jessa è finito, e non poteva essere altrimenti. Ma poco male, non è importante, nulla lo è, come il libro di Hannah (sarà lei stessa a dirglielo), come le strane relazioni di Marnie, come la falsa confessione di sé in "One Man's Trash" tutto è destinato a finire, a passare senza lasciare traccia nella nostra maturazione, un'altra esperienza da gettare nel mucchio e che non si merita altro che un pianto liberatorio nella vasca da bagno.

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