Girls: la recensione della prima stagione

In vista dell'inizio della seconda stagione, ecco il commento alla prima annata dello show di Lena Dunham...

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I don't wanna freak you out, but I think that I may be the voice of my generation. Or at least a voice. Of a generation.

La "voce" è quella di Hannah Horvath, giovane little girl in the big city divisa tra difficoltà economiche e relazioni sentimentali poco equilibrate, alle prese con un prematuro ma inevitabile bilancio di se stessa alla soglia dell'inizio della propria vita, qualunque essa sia. La frase, tratta da un dialogo con i propri genitori nell'ultimo, disperato tentativo di riottenere un sostegno economico, rappresenta invece, da vari punti di vista, il perfetto manifesto di Girls, che tornerà sulla HBO con la seconda stagione dal prossimo 13 gennaio. Accostato fin da subito (erroneamente) a Sex & the City, Girls è invece l'esatto riflesso della sua creatice e one-woman show Lena Dunham: incosciente e imperfetto da un lato, fresco e coraggioso dall'altro.

Girls - HBO

In dieci puntate va in scena la commedia drammatica della vita e viene aperta una finestra su uno spaccato qualunque delle ordinarie esistenze di quattro (ma sarebbe meglio dire 1 + 3, data l'assoluta predominanza del personaggio della Dunham) ragazze a New York. Hannah è l'alter ego attraverso il quale la Dunham, che la interpreta, filtra il proprio sguardo sulla sua generazione, o almeno su una generazione: quella degli incostanti, degli imperfetti, degli incoerenti, degli indecisi, di coloro che mentono a se stessi prima che agli altri, di coloro che sembrano eternamente sospesi tra un futuro del quale hanno paura e un passato che li spaventa ancora di più. E in questo sta la grande riuscita di Girls: nel fallimento di Hannah che, almeno nella prima stagione, non riesce a porsi come il faro che illumina la propria generazione, rimanendo più o meno vittima delle proprie contraddizioni, Lena invece vince, da narratrice esterna, indagando al di fuori ma anche e soprattutto all'interno della stessa protagonista, con uno sguardo critico che invece il personaggio dimostra di non possedere.

Ingredienti fondamentali per questo successo sono una sincerità e una schiettezza di base che tuttavia non si accompagnano ad una voglia di scandalizzare ad ogni costo. La dimensione è quella della quotidianità vissuta al di sotto della patina glamour che riveste altre produzioni con simili protagoniste. Ecco quindi dialoghi in situazioni che normalmente appartengono alla sfera di ciò che non si dovrebbe far vedere in tv, la sessualità, e la sua scoperta, vissute così, semplicemente, senza troppa artificiosità ma senza, viceversa, banalizzazioni, il coraggio di mettersi in gioco fino in fondo di fronte allo schermo, creando spesso anche sensazioni di imbarazzo ma con l'unico obiettivo di cercare empatia. La stessa fotografia, con i suoi colori e toni spenti, ci allontana dalla dimensione da commedia che solo a sprazzi emerge, per lasciare molto più spesso il campo ad un clima drama.

Se lo show avesse funzionato nella dimensione corale così come in quella appena esposta, oggi si parlerebbe di un piccolo miracolo televisivo. Purtroppo non è così e il resto del gruppo di co-protagoniste risulta a più riprese sacrificato quando non addirittura vittima del proprio stereotipo. Marnie (Allison Williams), Jessa (Jemima Kirke) e Shoshanna (Zosia Mamet), presentate efficacemente nel pilot e inquadrate alla perfezione con un paio di dialoghi mirati, rimangono spesso "in panchina" e la sensazione finale, giunta al culmine di un season finale non esattamente riuscito, è di tre occasioni forse non sprecate, ma non sfruttate pienamente. A proposito del finale non soddisfacente e dei caratteri: che le protagoniste commettano degli errori e siano spesso incorenti è giusto e, anzi, auspicabile ("one mistake at a time" recitava la tagline) eppure l'importante svolta narrativa riguardante Jessa, momento centrale dell'ultimo episodio, ha un sapore fin troppo randomico e sembra più che altro dettata da esigenze di scrittura (serve un evento catalizzatore che riavvicini tutti e metta l'accento su quella che deve apparire come la chiusura di una parentesi) più che da una naturale evoluzione dei personaggi. Peccato, perché proprio il personaggio di Jessa, fin dalla sua presentazione come "ragazza vissuta o presunta tale", elemento che risaltava ancora di più grazie ad un efficace contrasto con la più "ingenua" Shoshanna, possedeva un buon carico di "hipsterismo" con il quale la Dunham, indirettamente, rispondeva, giocandoci su, ad una delle principali critiche mosse allo show.

Si è detto che Girls non è un miracolo televisivo eppure, per certi versi, la sua stessa esistenza ha del prodigioso. Accade infatti che una giovane autrice, dopo aver trionfato ad appena 27 anni, con un'opera semiautobiografica da lei scritta, diretta e interpretata, al South by Southwest, si veda affidare dal più importante network via cavo americano la realizzazione di uno show tutto suo, sotto lo sguardo vigile di Judd Apatow, che nel 1999 aveva tracciato il sentiero con il seminale Freaks & Geeks. Potere del sogno americano...

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