Gipi vol. 6: Appunti per una storia di guerra, la recensione
Abbiamo recensito per voi il sesto volume dell'opera omnia di Gipi proposta da La Repubblica e L'Espresso
Come da lui stesso svelato nel redazionale che chiude il cartonato, la vittoria di due importanti premi al Festival international de la bande dessinée d'Angoulême nei primi anni Duemila cambiò il suo modo di vivere, donandogli una fama inaspettata. Oggi, Gian Alfonso Pacinotti è tra i narratori di punta del nostro Paese, e avere la possibilità di riconoscere lo spessore autoriale che lo contraddistingue, anche tramite opere pubblicate per la prima volta quasi quindici anni fa, è sicuramente un fattore interessante su cui riflettere.
I protagonisti della storia esprimono tre volti del cambiamento che porta l'individuo a migrare dall'enclave infantile verso il mondo esterno: il leader, la spalla che lo segue ciecamente e un terzo elemento totalmente fuori contesto, lì esclusivamente a causa di uno spirito di appartenenza verso "qualcosa". La Guerra che viene raccontata nel corso della vicenda è qualcosa di estremamente astratto, sempre nominata e mai davvero mostrata nei particolari. Tutt'altro discorso va fatto per quanto riguarda le sue conseguenze: gli scenari devastati, le regole sociali che mutano e la piega che ha preso la quotidianità dopo l'arrivo delle bombe.
Il fulcro del racconto si muove su una domanda declinabile in infiniti modi: perché, date determinate condizioni, i protagonisti delle storie agiscono in un modo piuttosto che un altro? Per comprendere le motivazioni dietro ogni scelta bisogna conoscere a fondo il contesto sociale (le amicizie tra figli dei ricchi e quelli dei poveri), il concetto di guerriglia urbana (con un riferimento palese ai Balcani e, nello specifico, agli scontri conseguenti alla scissione dell'ex Jugoslavia) e il profondo nulla che pervade le giornate dei giovani in provincia, sempre a un passo dalla cattiva strada.
Appunti per una storia di guerra è, in sintesi, un dramma di crescita e identità che mostra come "Non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male" e che "Qualche assassinio senza pretese lo abbiamo anche noi in paese", come cantava Fabrizio De André in Delitto di paese, canzone tradotta dal testo originario di George Brassens, cantautore anarchico francese che ben conosceva il mondo raccontato da Gipi.
Impossibile non provare empatia per le vite in rovina dei tre ragazzini che perdono loro stessi diventando uomini, com'è altrettanto facile riconoscere in quei volti distrutti alcune delle strade secondarie della vita che, prima o poi, sfiorano l'esistenza di tutti in modo più o meno importante.