Gipi vol. 6: Appunti per una storia di guerra, la recensione

Abbiamo recensito per voi il sesto volume dell'opera omnia di Gipi proposta da La Repubblica e L'Espresso

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Appunti per una storia di guerra, sesto volume della collana da edicola che ripropone l’opera omnia di Gipi in allegato a La Repubblica e L’Espresso, è uno degli spartiacque maggiori della carriera del fumettista pisano.

Come da lui stesso svelato nel redazionale che chiude il cartonato, la vittoria di due importanti premi al Festival international de la bande dessinée d'Angoulême nei primi anni Duemila cambiò il suo modo di vivere, donandogli una fama inaspettata. Oggi, Gian Alfonso Pacinotti è tra i narratori di punta del nostro Paese, e avere la possibilità di riconoscere lo spessore autoriale che lo contraddistingue, anche tramite opere pubblicate per la prima volta quasi quindici anni fa, è sicuramente un fattore interessante su cui riflettere.

Questa graphic novel è la seconda storia lunga firmata da Gipi come autore completo dopo Esterno Notte (prossimo capitolo della raccolta) e segna l'esordio del suo secondo binario stilistico: dall'acquerello emotivamente evocativo utilizzato nella storia precedente, si passa a toni più freddi e cupi, con colori poco saturi e figli di un ristrettissimo spettro cromatico, che trasmettano solitudine e desolazione. La provincia raccontata da Pacinotti è la matrice comune di tutti i territori sviluppatisi al di fuori delle grandi città italiane: ci si conosce tutti, si ha una ristretta cerchia di amici e, tendenzialmente, si resta cristallizzati nella propria età molto più tempo del normale, perpetuando l'adolescenza tardiva per diversi anni rispetto ai coetanei di città.

I protagonisti della storia esprimono tre volti del cambiamento che porta l'individuo a migrare dall'enclave infantile verso il mondo esterno: il leader, la spalla che lo segue ciecamente e un terzo elemento totalmente fuori contesto, lì esclusivamente a causa di uno spirito di appartenenza verso "qualcosa". La Guerra che viene raccontata nel corso della vicenda è qualcosa di estremamente astratto, sempre nominata e mai davvero mostrata nei particolari. Tutt'altro discorso va fatto per quanto riguarda le sue conseguenze: gli scenari devastati, le regole sociali che mutano e la piega che ha preso la quotidianità dopo l'arrivo delle bombe.

Giuliano, Stefano "Killerino" e Christian crescono insieme a velocità diverse, mostrando come una banda di ragazzini che gioca a fare la Guerra possa, fin troppo facilmente, diventare qualcosa di molto più grande e votato al male. I piccoli crimini e i primi soldi "sporchi" iniziano a far annusare un'aria diversa ai tre che, inesorabilmente, non possono non notare come anche la loro amicizia non sia immune al mutare dei tempi. Le conseguenze delle loro scelte mostrate da Gipi sono spietate e, come sempre nelle sue storie, non ci sono veri vincitori e vinti. Leggendo consecutivamente le varie opere firmate dall'autore pubblicate in una sorta di percorso a ritroso, è incredibile notare come il materiale grezzo plasmato sia sempre della stessa pasta: nonostante le diverse riscritture dello stesso concetto portate avanti dall'autore, al termine della lettura resta sempre la sensazione di aver vissuto un'esperienza nuova, tanto vicina alle precedenti quanto forte nella sua identità singola.

Il fulcro del racconto si muove su una domanda declinabile in infiniti modi: perché, date determinate condizioni, i protagonisti delle storie agiscono in un modo piuttosto che un altro? Per comprendere le motivazioni dietro ogni scelta bisogna conoscere a fondo il contesto sociale (le amicizie tra figli dei ricchi e quelli dei poveri), il concetto di guerriglia urbana (con un riferimento palese ai Balcani e, nello specifico, agli scontri conseguenti alla scissione dell'ex Jugoslavia) e il profondo nulla che pervade le giornate dei giovani in provincia, sempre a un passo dalla cattiva strada.

Appunti per una storia di guerra è, in sintesi, un dramma di crescita e identità che mostra come "Non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male" e che "Qualche assassinio senza pretese lo abbiamo anche noi in paese", come cantava Fabrizio De André in Delitto di paese, canzone tradotta dal testo originario di George Brassens, cantautore anarchico francese che ben conosceva il mondo raccontato da Gipi.

Impossibile non provare empatia per le vite in rovina dei tre ragazzini che perdono loro stessi diventando uomini, com'è altrettanto facile riconoscere in quei volti distrutti alcune delle strade secondarie della vita che, prima o poi, sfiorano l'esistenza di tutti in modo più o meno importante.

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