Gimme Danger, la recensione

La storia di Iggy Pop & The Stooges in Gimme Danger diventa una cavalcata cronologica e convenzionale che omette i molti dettagli disturbanti ed estremi

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è una personalità invidiabile nella maniera in cui Jim Jarmusch racconta Iggy Pop & The Stooges, non necessariamente questo però si traduce nel linguaggio e nelle scelte migliori per il film. Gimme Danger è l’esatto contrario del suo titolo, è un film con pochissima musica, solitamente in sottofondo, e molti aneddoti, uno in cui c’è più attenzione all’uso di immagini di repertorio (impeccabile) che al percorso sonoro (discutibile, accennato, povero), e in cui viene letteralmente cancellata una parte non poco importante della storia del gruppo: l’eccesso.

Nonostante sia impossibile riprendere Iggy Pop senza far trasparire diverse forme di eccesso, Jarmusch riesce a tenere fuori dal film quella che è stata una delle componenti fondamentali del gruppo, cioè la maniera in cui tra la fine dei ‘60 e l’inizio dei ‘70 alzarono l’asticella dell’autodistruzione con una musica che andava di pari passo, incattivendo il rock dell’epoca. Se un montaggio finale rapido e pigro mostra l’influenza degli Stooges nel resto del mondo della musica, pochissimo racconta quanto l’atteggiamento che avessero non solo ha aperto la strada a tanti come loro, ma prevedeva quella che sarebbe stata la grande conseguenza della fine dell’ideologia dell’amore degli anni ‘60 e l’abisso che non poteva che seguire.

Jarmusch ha tutto un suo modo di edulcorare i propri film, di guardare al lato più delicato anche di ciò che consideriamo meno delicato. Nel momento in cui applica questo suo modo di raccontare e guardare la realtà ad Iggy Pop però tradisce e omette, aggiusta e svilisce quello che è stato il senso di un uomo e di un corpo tra i meno concilianti di tutta la storia del rock. Il tradimento è tale che si fa fatica davvero a considerare Gimme Danger un documentario capace di dire qualcosa sul gruppo che non sia come nel mondo della musica si possa invecchiare senza morire (argomento che con gli Stooges viene ripassato più e più volte).

Anche il sottofinale in cui, dopo aver cavalcato in modo abbastanza convenzionale gli anni dall’adolescenza di Iggy Pop fino all’ingresso nella Hall of Fame degli Stooges, il documentario ritorna indietro, ad un aneddoto di quando erano giovani per chiudere con un tono sentimentale, l’impressione è che davvero si sia voluto scrivere un’altra mitologia su quella già esistente del gruppo. Una peggiore.

Continua a leggere su BadTaste