Gigi la legge, la recensione

Nella provincia italiana del Nord Est Gigi, vigile urbano, gira in Panda e vive con una solarità contagiosa e noi non possiamo non guardarlo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Gigi la legge, il film di Alessandro Comodin, nelle sale dal 9 febbraio

Ci vuole davvero una grande forza cinematografica per prendere un'ambientazione marginale come un paesino del Nord Est, lasciarla totalmente marginale e sullo sfondo, riprendere questioni ordinarie di un posto ordinario che si svolgono più che altro sempre uguali giorno dopo giorno ed essere in grado di trovarci dentro il segreto per l'interesse verso gli altri esseri umani. Gigi la legge è un documentario (presentato al festival di Locarno) che non sembra proprio un documentario, girato intorno a Gigi, vigile urbano che gira in panda con un ottimismo inspiegabile, flirta via radio con la nuova vigilessa addetta alle comunicazioni che non ha mai visto ma che i diversi colleghi che si alternano accanto a lui gli descrivono. Un documentario che sembra pensato come una strip story, in cui ciò che conta sono le variazioni su quadri molto simili.

Ci sarà anche un giardino nel quale perdersi di notte come in un film di Apichatpong (in cui apparizioni fantasmatiche e sogni sono anch’esse qualcosa di ordinario) e poi un caso di una morte sui binari, ma questo non è uno di quei film lì. Non è uno di quei film in cui l’intreccio parte sotterraneo ed esplode nel finale quando pensavamo non contasse niente, né uno di quelli in cui notte e giorno procedono su binari separati. Gigi la legge è quello che sembra, un film che affianca piccole questioni ordinarie quotidiane e ripetitive, in cui si passa la prima metà a chiedersi dove vada a parare tutto questo peregrinare di Gigi, tutte queste ricognizioni in luoghi in cui non accade niente mentre la radio sostiene che invece accada qualcosa. Il punto rimarrà sempre la personalità di Gigi, l’approccio alla vita e il rapporto con un mondo che è per lui così perfetto.

Per riuscirci Comodin ci educa ad una grammatica audiovisiva sua. Come ad esempio il fatto che riprenda Gigi alla guida sempre dal lato passeggero per lunghe inquadrature e quando poi stacca sul lato passeggero, come fosse un controcampo, impariamo a capire che è il segno che è passato del tempo, se non proprio un’altra giornata. Prima ci insegna la sua grammatica poi inizia ad usarla e alla fine ci stupisce. 

Ogni conversazione pesa in questo film, anche se non sembra. E come in Taxi Teheran i compagni di viaggio sono lo snodo del film stesso, segnano il passaggio a diverse fasi. Entrare in macchina è entrare nel mondo di Gigi. Questo accadrà infatti quando finalmente lo farà anche Paola (eccezionale per luminosità e presenza), la personificazione dei valori e delle idee di cui le conversazioni l’avevano caricata. Così sembra che quasi Comodin voglia capire il segreto di come Gigi faccia ad essere Gigi e un finale con la svolta umana (sempre tramite conversazione) non farà che ribadire il mistero di quest’uomo, che poi è il mistero di qualsiasi essere umano e della nostra incredibile fascinazione per essi.

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