Ghostbusters: Legacy, la recensione
Scartando New York per la provincia Ghostbusters: Legacy cambia scala e quindi genere ma ottiene il massimo risultato possibile
Già l’inizio, una sorta di prologo, dichiara quello che tutti aspettano di sentirsi dire: che questo film sa qual è lo spirito di Ghostbusters, lo conosce, lo sa replicare e ci vuole giocare. Che i personaggi degli altri film non sono ignorati e che siamo qui per un’operazione nostalgia, un film con i mostri analogici (o almeno molti mostri analogici) ed espedienti dolcemente demodè come il fumo. Il resto del minutaggio non farà che costruire su questo, mettendo insieme una macchina del tempo filmica che una volta tanto convince, non pare usurata, fa tantissimo fan service ma (incredibile) lo fa con garbo e senza che questo peggiori la trama. Forse, a voler essere puntigliosi, la presenza già nota ed annunciata degli attori originali è la parte più debole, quella che cede di più alla nostalgia semplice e che sembra ragionare con il senso del dovere (cosa è necessario che dicano, come è necessario che si comportino) più che con l’ambizione di fare un film autonomo.
Con uno score che pare composto dall’Alan Silvestri degli anni ‘80, un’epica avventurosa di provincia commovente, rischi di fine del mondo e flussi da incrociare, Ghostbusters: Legacy avrà anche cambiato pelle e location, ma non la maniera in cui fa sentire il pubblico. New York era un elemento determinante di quei film, levarla vuol dire levare i newyorchesi e il rapporto disilluso con la vita che si respira intorno ai protagonisti, cioè cambiare il rapporto con il paesaggio e quindi il tono. E infatti è diverso. Ma questo segna anche il passaggio da un film mainstream ad uno che flirta con l’indie, che cerca la location piccola e la storia familiare, che invece di essere il fratello minore di Ghostbusters vuole esserne il cugino di campagna, forse un po’ più rozzo e succube ma non per questo meno divertente da frequentare.