Ghost Stories, la recensione

Partito con promesse troppo alte, Ghost Stories non riesce mai ad essere all'altezza delle sue stesse premesse

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un problema fondamentale alla base di Ghost Stories, ovvero il fatto che tutto il suo attacco si fonda su una grande promessa: quel che vedremo sarà in grado di far ricredere uno scettico sulla possibilità di presenze ultraterrene. Ed è una promessa fatta bene, che crea la giusta tensione e incertezza riguardo l’argomento. Solo che poi non riesce a soddisfare le aspettative.

Quando all’inizio vediamo come lavora il protagonista, un debunker che smentisce medium, parapsicologi e maghi di ogni sorta, e vediamo che, convocato dall’uomo che ha ispirato la sua carriera dandogli un esempio (il più grande indagatore di affari paranormali d’Inghilterra), viene sfidato a indagare sui tre casi che hanno fatto cambiare idea addirittura anche a lui, siamo pronti all’incredibile, ad accompagnarlo in qualcosa di terribile e inedito.

Quel che vedremo sarà a tratti di grande tensione, spesso spaventoso ma mai davvero capace di mutare le idee di uno scettico. Un finale complicato, pieno di twist e con una risoluzione non propriamente soddisfacente non farà che peggiorare l’impressione iniziale.

Ghost Stories non fa mai mistero, fin dal titolo e dallo spunto, di essere episodico (è l’adattamento di uno spettacolo teatrale di grandissimo successo), di funzionare cioè su tre storie autonome che tuttavia hanno legami e mostreranno alla fine il loro filo comune. Nonostante questa precisazione, che il pubblico capisce fin dall’inizio, lo stesso l’impressione di assistere a qualcosa di eccessivamente frammentato, fine a se stesso e troppo simile al cortometraggio di paura più che al film vero e proprio, è fortissima. Ghost Stories non racconta tanto storie di fantasmi quanto cerca di dare a loro un senso, senza davvero riuscirci. E a ben poco serve il sempre affidabile Martin Freeman, che se una cosa dimostra in questo film è di non essere in grado da solo di fare la differenza.

E dire che poi l’armamentario imbastito da Jeremy Dyson e Andy Nyman (autori del film come dell’opera teatrale) è estremamente classico, fatto di rumori, buio e apparizioni, dunque sempre funzionante. Inoltre i due danno l’impressione di aver lavorato molto e bene sulla trasposizione, cercando sempre di usare le armi del cinema per fare quel che facevano in altri modi a teatro. Ad esempio nel film ricorrono molto spesso inquadrature metodicamente composte per lasciare lo sfondo sfocato ma al centro dell’inquadratura (con il soggetto a fuoco spostato quindi da una parte), dando sempre l’idea che da un momento all’altro qualcosa stia per accadere proprio lì dove non vediamo bene. Eppure davvero alla fine si fa fatica a non chiedersi che film si sia appena visto, quale fosse il suo argomento reale e per cosa dovrebbe essere ricordato.

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