Ghost Rider

Un giovane motociclista, per salvare la vita al padre ammalato, vende l’anima al diavolo, diventando così uno spirito della vendetta fiammeggiante. La pellicola con Nicolas Cage non è neanche troppo pacchiana, ma semplicemente insulsa

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Quando ero adolescente io (e stiamo parlando, fa impressione dirlo, di quasi vent’anni fa), Ghost Rider era considerato il fumetto americano più fascista sulla piazza, assieme al Punitore. Devo dire che, nonostante avessi le idee un po’ confuse, intuivo già allora che utilizzare certe seriose categorie di pensiero per prodotti del genere fosse ridicolo. Se già il fumetto, insomma, non era da prendere troppo sul serio (ma almeno era disegnato divinamente), figuriamoci una pellicola diretta da Mark Steven Johnson e interpretata da Nicolas Cage.

Non ci sarebbe nulla di male a realizzare un film badando solo allo spettacolo e all’evasione. Il problema è che manca qualcosa. Normalmente, anche nei prodotti più brutti di questo tipo, è possibile farsi quattro risate (magari senza che questa fosse l’intenzione degli autori). Insomma, anche il trash ha i suoi lati positivi. Per carità, qualche momento esilarante non manca, ma sono per lo più frammenti isolati (l’entrata in scena di Eva Mendes, un poliziotto sbalzato dal suo veicolo, l’ombra deforme di Mefistofele che si staglia nell’officina).
Ma Ghost Rider è il nulla. Mentre il fumetto almeno prendeva una strada di notevole violenza, la pellicola elimina ogni vago elemento sovversivo. Per esempio, non viene ferito nessun poliziotto. Per carità, io non ho problemi con questa categoria, il mio non è un discorso politico. Semplicemente, nel contesto della storia (soprattutto quando Johnny Blaze non controlla Ghost Rider) la cosa non ha senso (se non, appunto, quello di realizzare un prodotto inoffensivo).
D’altra parte, il nostro (anti)eroe non uccide nessun umano, neanche dei criminali efferati (anche qui, è la coerenza narrativa a starmi a cuore).

Anche così, qualche idea originale si poteva trovare. Ma la pellicola va avanti tra scopiazzature spudorate. Il modo in cui il protagonista fa soffrire le sue vittime è uguale-identico al Corvo, per esempio. E la scena in cui Ghost Rider fronteggia l’elicottero l’abbiamo vista decine di volte (scegliete voi, magari tra Rambo 3 e True Lies). Quest’ultima è particolarmente significativa, perché è stata quella che ha causato più di sei mesi di ritardo per l’uscita del film. E vedendola, ci si chiede come sia stato possibile (ho idea che James Cameron ci avrebbe messo una mezza giornata per fare tutto). Ci sarebbero poi le sorprese finali sull’identità di un personaggio e sul sistema per sconfiggere l’apparentemente imbattibile nemesi. Peccato che, oltre a non essere originali, questa rivelazioni siano anche stratelefonate un’ora prima per tutti quelli che, durante le proiezioni, non giocano con il telefonino. E i dialoghi? Vorrebbero essere cool come quelli degli anni ottanta. Peccato che, da questo punto di vista, cinque minuti a caso di Commando (ma anche robaccia come Cobra va bene) siano molto più interessanti di quasi due ore di questo film.

Normalmente, in questi casi si dà la colpa ad eventuali dissidi tra sceneggiatore e regista. Ma come fare quando queste due figure coincidono nell’immenso Mark Steven Johnson, che già aveva massacrato Daredevil? E’ incredibile che ad un regista così scarso vengano offerte tutte queste possibilità. Sovraimpressioni da televisione di provincia, zoomate deliranti sugli occhi dei personaggi, montaggi raffazzonati, effetti speciali che sembrano vecchi di 25 anni (e sarebbero stati orribili anche allora). E per fare questa monnezza, ci vogliono quattro anni e 120 milioni di dollari? Scandaloso.

Che dire poi dei personaggi? Nicolas Cage può tirare un sospiro di sollievo, perché il successo americano gli dà un po’ di respiro, vista l’infinita serie di flop degli ultimi tempi (e considerando che un Ghost Rider 2 sembra ormai scontato…). Ma certo non c’è molto da vantarsi per un personaggio del genere, che non è minimamente affascinante, né tormentato come dovrebbe. E le colpe non sono solo della sceneggiatura, come dimostra una scena ridicola di fronte allo specchio. Eva Mendes è una banalissima damsel in distress, che non suscita alcun interesse, a parte quello verso le sue misure (che vengono giustamente messe ben in evidenza).
Peter Fonda è un Mefistofele che non fa paura a nessuno, senza carisma e piattissimo. Sul declino di Wes Bentley (da American Beauty in poi), inutile versare altro inchiostro.

E questa pellicola, ogni tanto, ha anche il coraggio di prendersi sul serio. Basti pensare al monologo finale da antologia (del trash).
E’ tutto qui quello che si può fare con la nobile arte del popcorn-movie? Allora, aridatece Sly, Schwarzie e Don Simpson

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