Ghost Cat Anzu, la recensione | Cannes 77
Anche se cala un po' nella seconda parte Ghost Cat Anzu è un anime originale e divertente, con un protagonista che non si dimentica.
La recensione di Ghost Cat Anzu, il film diretto da Yoko Kuno e Nobuhiro Yamashita presentato al Festival di Cannes.
Un padre irresponsabile indebitato con gli strozzini lascia la piccola Karin al nonno, guardiano del locale tempio buddista. Sembrerebbe tutto normale in questa cittadina del Giappone, se non fosse che a guardia del tempio c’è anche un buffo gatto antropomorfo di nome Anzu. A metà strada fra Garfield e Doraemon (di cui lo studio Sin-Ei è produttore) il genio del film sta tutto nella creazione di questa figura surreale, fonte inesauribile di gag ma anche personaggio con una sua profondità: indolente e dispettoso, Anzu diventa il tutore della piccola protagonista, metaforizzando (in un film dall’evidente impianto allegorico) la presa di responsabilità del padre assente che deve imparare a prendersi cura della figlia.
La magia si spegne un po’ nella seconda parte, che è quasi un remake meno solenne di La città incantata: c’è un viaggio mitico alla ricerca dei genitori (la madre è morta, il padre se n’è andato), c’è un mondo di spiriti che somiglia molto all’inferno della concezione cristiana. E c’è sempre un’aria di racconto allegorico, da Divina Commedia in piccolo, che forse dietro le figure dei diavoli e del loro capo in limousine vede nascosti i delinquenti fin troppo reali con cui è andato a immischiarsi il padre di Karin. Il ritmo cala, lo humour pure, il viaggio iniziatico miyazakiano è meno originale della commedia della prima parte. Eppure il film mantiene una certa ispirazione visiva, e sa colpire con durezza quando c’è da raccontare i lati meno idilliaci della vita.