Ghiaccio, la recensione

Pugilato&borgata, il binomio stavolta è scritto e diretto da Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis in un film che è meglio di quel che non si creda

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Ghiaccio, al cinema il 7, 8 e 9 febbraio

Non c’è altro modo per dirlo: film come Ghiaccio una volta sarebbero stati terribili. Velleitari, scritti male, recitati peggio e messi in scena senza la minima cognizione di cosa si stava facendo. Senza proprio conoscere regole e look del genere di riferimento. Il fatto che invece tutto nella produzione e direzione del film sia almeno corretto è un traguardo della nostra industria. Certo un traguardo piccolo perché dovrebbe essere il minimo indispensabile avere un sistema che faccia in modo che i film almeno escano tutti corretti. Ma lo stesso è un traguardo, anche figlio del miglioramento e della fioritura del genere criminale in televisione, che ha abituato gran parte delle maestranze ad un certo tipo di lavoro e ha mostrato a tutti gli altri quali siano gli standard cui ambire quando si rappresenta il mondo delle città dure.

E in questa storia di pugilato&borgata, fatta di palazzi pericolanti, strozzini, bastardi, amori e tenerezze con lo sport come unica via d’uscita, era esattamente quel che serviva.

Certo Alessio De Leonardis e Fabrizio Moro (coppia cementata dai videoclip del secondo e ora al primo film insieme) non scrivono propriamente un copione irresistibile. La storia del ragazzo scapestrato con famiglia disastrata che viene spinto da un allenatore bisognoso di una seconda occasione a sfondare con il pugilato per migliorare la sua vita, non è trattata con la decisione che servirebbe. I dialoghi sono molto molto generici e anche la regia nei momenti decisivi opta quasi sempre per un’enfasi al rallentatore che sottolinea ancora di più ciò che da solo è molto emotivo. Fa insomma un’operazione barocca che non raggiunge mai il suo obiettivo davvero ma ci gira intorno urlando molto.

Inoltre, nonostante come detto la realizzazione sia molto migliore di quello che sarebbe stata una volta, certi marchi d’infamia sono duri ad andarsene. Come la recitazione molto enfatica, molto sottolineata e il dialetto parlato comunque impostazione da attori (e Vinicio Marchioni già da Romanzo criminale è il re del dialetto in buona dizione) ma anche il fatto che i personaggi parlino di sé e del contesto in cui vivono come fossero persone terze e non come se li stessero vivendo: “È bella questa città” - “Peccato che dove siamo nati de questa bellezza nemmeno sentimo l’odore” - “E allora perché ce rimanemo?” - “Perché forse ce va bene così, ce semo nati e ce volemo morì” e poi ancora: “La borgata è come la mamma, voi scappà ma alla fine ce torni sempre perché te fa sentì sicuro”.

Così la parte più apprezzabile di tutto il film è l’incontro finale, molto sospirato, annunciato e caricato a dovere, ripreso con bei piani sequenza che tengono al centro la faccia del protagonista, per poi cambiare punto di vista alla fine, saltando tra totali e dettagli sul volto dell’avversario. C’è un bell’andamento drammaturgico del conflitto e soprattutto il pugilato è ben coreografato, in modo che tutto possa essere mostrato con chiarezza e senza timori.
Per una volta un film italiano che punta sui corpi e sulla rappresentazione visiva piuttosto che sulla sola scrittura.

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