Get on up, la recensione
Con Get on up viene segnato un nuovo standard per i film biografici da cui non si dovrebbe prescindere. Un film che imiti la musica e cerchi di avere il carattere del personaggio
Get on up impacchetta diversi momenti e diverse fasi di James Brown, sia personali (l'infanzia e l'adolescenza) che professionali (gli esordi, l'affermazione, l'età avanzata, la fama ecc. ecc.), ci appone sopra una data e dà ad ognuna un titolo, per poi mescolarle e saltare da una all'altra senza rigore cronologico, seguendo istinto e ritmo.
Non che non si sia già fatto (e pure con più raffinatezza in Io non sono qui) ma la maniera in cui il film è scritto predilige l'istinto al ragionamento e accoppia la musica furiosa con un racconto furioso tutto one-line e colpi clamorosi, nei suoi momenti migliori montato con isteria ritmata e coinvolgente, nel quale Tate Taylor fa di tutto per inserire un po' di quel miscuglio di buonismo e black awareness che tanto avevano funzionato in The Help.
Non esita insomma in nessun momento ad apparire un film che NON vuole raccontare James Brown l'uomo, per mettere un po' di musica in più, per inquadrare Chadwick Boseman che balla imitando come può le movenze iconiche e per esagerare in ogni senso. Get on up è un film sotto cocaina, ipercolorato, disposto a tutto per avere il medesimo ritmo che i fiati impongono al funky di James Brown e sembra non avere regole, a tratti fa parlare il protagonista con il pubblico e in altri momenti no, in alcuni invece gli strizza solo l'occhio. Quest'uomo visto come un'insaziabile macchina che aspira al successo più di tutto, che ha sete di avere e sete di cantare, che vuole andare in Vietnam e arrivato lì tra le bombe sembra esaltato dal rischio, scende dall'aereo e con uno stacco è sul palco, batteria e fiati attaccano subito al massimo e dietro di lui di nuovo con uno stacco siamo su una bomba che esplode. Urlo. Altra scena, altro periodo.