Georgetown, la recensione
Molto focalizzato sulla propria interpretazione e sciatto sul resto, Waltz non riesce mai a fare di Georgetown un film che lo sorregga
Ci sono tantissimi elementi di interesse per un attore in questo personaggio ambiguo, pieno di sfumature di cui scopriamo qualcosa di nuovo ogni 5 minuti, qualcosa che la recitazione aveva nascosto ma la trama svela, e che ci sorprende di continuo perché è lo stesso personaggio a recitare parti diverse nel film. È un grandissimo esercizio, molto complicato, ma che non si traduce mai in una grande interpretazione perché nonostante necessiti di sfumature delicatissime (che Waltz matematicamente non sbaglia), non è scritto bene.
E come spesso capita non è l’assolo a dare anima ad una performance ma la continuità. È la maniera in cui quella performance lavora in armonia con il resto del film ad esaltarla o sfidarla a dare il meglio.
Georgetown invece è molto convenzionale su tutti gli aspetti, è estremamente corretto e ben scritto ma privo di vita. È evidente che Waltz da regista si preoccupa più che altro di servire la sceneggiatura e per il resto non ha idee. Il film copia le luci, gli interni, gli abiti, le palette di colori dove può, molto spesso dagli standard per il cinema di politica americano (standard, ancora una volta, creato e fissato dalla tv con House Of Cards, fatto di interni grigi, colori freddi e color correction leggermente blu). Addirittura anche per le parti in Medio Oriente cerca di creare l’atmosfera di quei posti cambiando grammatica delle inquadrature per ricalcare quella dei film di guerra d’ambientazione mediorientali, tutta focali lunghe e giallo.