Generazione Low Cost, la recensione

Senza speranza e senza futuro, Generazione Low Cost nel suo non affermare mai nulla si veste benissimo da film poetico e malinconico ma a ben vedere non fa altro che insistere sulla disillusione senza realmente aprirsi alla riflessione.

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La recensione di Generazione Low Cost, al cinema dal 12 maggio

Più che low cost, la generazione rappresentata dai registi e sceneggiatori Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre è una generazione senza speranza, disillusa, che tramite l’affermazione dei suoi desideri (mutevoli, incerti, raccontati davanti a un drink o tra una sigaretta e l’altra) cerca di mascherare come può un vuoto, nascondendolo dietro l’unica valuta che pensa di possedere: l’ostentazione della sua libertà.

Alienata e resa a-sentimentale (in nome di un’efficienza massima del servizio) dalla formalità di una divisa e dalla forzatura di un sorriso continuo, Cassandre (Adèle Exarchopoulos), come le sue colleghe hostess della compagnia low cost per cui lavora deve reprimere sé stessa, le sue emozioni e il suo passato - tra alcol e relazioni a scadenza breve - per tenersi stretto un lavoro senza garanzie di futuro. In questo lavoro l’immagine regna (priva di emozione, ma dal forte valore simbolico: lo status sociale che emana, instagrammabile ma mai soddisfacente nel privato) e fagocita anche quel trauma che Cassandre reprime e che, una volta fermatasi a terra, la sovrasta lasciandola inerme.

Se c’è qualcosa che maggiormente caratterizza questo dramma sociale “da pedinamento”, sempre vicinissimo visivamente e fisicamente alla sua protagonista, in modo quasi soffocante, è il suo nichilismo totale. Un nichilismo che qui corrisponde alla rinuncia di qualsiasi indagine emotiva sul personaggio, così vicino ma così inafferrabile (dall’arco di trasformazione mancato) e ad un’indagine critica dal tematismo forte (l’argomento è tutto lo schifo del precariato giovanile e dell’attuale mercato del lavoro) ma dalla direzione specifica fin troppo vaga.

In un continuo galleggiare sulla superficie delle cose, Generazione Low Cost più che esplorare si limita a trovare nel gioco della forma il corrispettivo di un contenuto generale e generalista (la distanza tra noi e il personaggio come la distanza tra il personaggio e i suoi sentimenti, il mondo, gli affetti), usando fino all’ultimo il trucco dell’esposizione disinteressata per trarre autorialità ed emozione da un storia che, per quanto nella prima parte agganci la curiosità, alla fine lascia più che altro un’amarezza di pancia e non “di testa”.

Se quindi l’impianto drammaturgico e critico non sono proprio il punto forte, Generazione Low Cost può invece vantarsi della naturalezza che riesce ad ottenere dalla messa in scena e dalla recitazione: c’è infatti una minuzia di realismo spiazzante nel modo in cui riesce, apparentemente senza sforzo alcuno, a raccontare le dinamiche lavorative nelle sue singole situazioni, con dialoghi ed espressioni che trasudano un senso verità percepita decisamente alto (e che assumono su di esse tutta la carica empatica di cui il film è capace).

Senza speranza e senza futuro, Generazione Low Cost nel suo non affermare mai nulla si veste benissimo da film poetico e malinconico ma a ben vedere non fa altro che insistere sulla disillusione senza realmente aprirsi alla riflessione.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Generazione Low Cost? Scrivetelo nei commenti!

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