Generazione Low Cost, la recensione
Senza speranza e senza futuro, Generazione Low Cost nel suo non affermare mai nulla si veste benissimo da film poetico e malinconico ma a ben vedere non fa altro che insistere sulla disillusione senza realmente aprirsi alla riflessione.
Più che low cost, la generazione rappresentata dai registi e sceneggiatori Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre è una generazione senza speranza, disillusa, che tramite l’affermazione dei suoi desideri (mutevoli, incerti, raccontati davanti a un drink o tra una sigaretta e l’altra) cerca di mascherare come può un vuoto, nascondendolo dietro l’unica valuta che pensa di possedere: l’ostentazione della sua libertà.
Se c’è qualcosa che maggiormente caratterizza questo dramma sociale “da pedinamento”, sempre vicinissimo visivamente e fisicamente alla sua protagonista, in modo quasi soffocante, è il suo nichilismo totale. Un nichilismo che qui corrisponde alla rinuncia di qualsiasi indagine emotiva sul personaggio, così vicino ma così inafferrabile (dall’arco di trasformazione mancato) e ad un’indagine critica dal tematismo forte (l’argomento è tutto lo schifo del precariato giovanile e dell’attuale mercato del lavoro) ma dalla direzione specifica fin troppo vaga.
Se quindi l’impianto drammaturgico e critico non sono proprio il punto forte, Generazione Low Cost può invece vantarsi della naturalezza che riesce ad ottenere dalla messa in scena e dalla recitazione: c’è infatti una minuzia di realismo spiazzante nel modo in cui riesce, apparentemente senza sforzo alcuno, a raccontare le dinamiche lavorative nelle sue singole situazioni, con dialoghi ed espressioni che trasudano un senso verità percepita decisamente alto (e che assumono su di esse tutta la carica empatica di cui il film è capace).
Senza speranza e senza futuro, Generazione Low Cost nel suo non affermare mai nulla si veste benissimo da film poetico e malinconico ma a ben vedere non fa altro che insistere sulla disillusione senza realmente aprirsi alla riflessione.
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